Introduzione

Il Concilio Vaticano II, attribuendo un significativo rilievo alle chiese locali, ha implicitamente invitato a studiarne le tradizioni e le vicende, e a metterne in evidenza le identità particolari.

Ma la storia di una comunità locale, di una diocesi o anche di una parrocchia, può essere adeguatamente analizzata e sinteticamente ricostruita solo interpretandola nell'orizzonte della storia "generale". L'indagine scientifica, pertanto, si articola attraverso uno stretto raccordo tra eventi e situazioni proprie di una vicenda particolare e i dinamismi politico-religiosi e pastorali di una collettività più ampia, soprattutto nazionale.

Per quanto riguarda la vita religiosa in Italia tra '800 e '900, la ricerca storica non può non preoccuparsi di verificare le opzioni, gli orientamenti e i propositi dell'azione pastorale di una chiesa locale in stretta connessione con una prassi ecclesiale fortemente centralizzata e dipendente dalle direttive romane e dai modelli da essa imposti.

In tal senso la vicenda di un oratorio ancora attivo nella città di Fermo può rappresentare un campo di indagine significativo. Dall'anno della fondazione (1909) al 1931, data ben nota nella storia dei rapporti tra la chiesa e il regime fascista, le scelte pastorali suggerite (e spesso imposte) dal processo di secolarizzazione della società italiana, di cui le giovani generazioni risentono in modo particolare, i conflitti con lo stato totalitario, preoccupato di operare un radicale controllo delle organizzazioni giovanili all'interno di una globale politica di nazionalizzazione delle masse, e infine l'impegno personale di un arcivescovo, mons. Carlo Castelli, costituiscono una sorta di "microstoria": una vicenda locale che rispecchia tendenze generali che prendono forma attraverso opzioni concrete, scelte talvolta pionieristiche e conflitti con le istituzioni che segnano profondamente la storia di una comunità ecclesiale.

Se è vero, come osserva Gabriele De Rosa, che "la validità di una storia locale trova conferma nella nostra vita quotidiana"(1), l'indagine "microstorica", a condizione di evitare ogni fervore celebrativo o localistico, può consentire alla storia locale di offrire contributi sostanziali alle ricerche più ampie e complessive, spesso limpide ed efficaci, ma non sempre scrupolosamente attente alle particolarità e alle sfumature che emergono dall'osservazione di esperienze apparentemente marginali.

Seguendo una prospettiva metodologica del genere, il presente lavoro, esaminando i primi venti anni di attività del Ricreatorio San Carlo di Fermo, soprattutto attraverso ricerche di archivio spesso non facili, intende ricostruire una pagina di storia della vita ecclesiale della città episcopale nella quale gli atteggiamenti, i progetti pastorali, i conflitti politico-religiosi di un'epoca ormai trascorsa assumono connotati localmente determinanti. Le tensioni e le dinamiche storiche che caratterizzano il cattolicesimo italiano in una fase decisiva della propria storia, tra Cristianità e scristianizzazione, risultano così presenti ed operanti anche in un contesto religioso e civile per certi versi "periferico", dove talvolta può sembrare che le trasformazioni ed i conflitti "generali" siano percepiti in ritardo o in forme fortemente mediate.

 

Capitolo primo
La situazione politica, culturale e religiosa della diocesi di Fermo nei primi anni del secolo: cenni introduttivi.

1.1. Il contesto sociale marchigiano tra Ottocento e Novecento

Verso la metà del secolo scorso arriva in Italia, con molto ritardo rispetto ai paesi anglosassoni, il processo di industrializzazione. L'Inghilterra, ad esempio, aveva conosciuto prima il nuovo assetto produttivo, perché era solidamente ancorata alle sue istituzioni parlamentari e al sistema liberale, mentre il resto d'Europa era dominato ancora dall'assolutismo monarchico. Diversa era inoltre la composizione delle classi sociali, espressione di un sistema economico già avviato all'industrializzazione. La maggioranza dei paesi europei era impegnata a liberarsi delle zavorre politiche più che a potenziare le proprie strutture commerciali. Esiziali, per l'economia del continente, risultavano le politiche protezioniste ereditate dall'Antico Regime. Il cambiamento è arrivato tardi, quindi, ma proprio per questo più impetuoso.

La realtà italiana di fine Ottocento si può individuare in tre grandi aree di sviluppo: quella del Nord, più vicina al continente, dove predomina l'industria capitalistica; quella centrale che ha una forma intermedia e il Mezzogiorno con una struttura quasi esclusivamente artigianale. Le Marche, con l'Umbria e l'Abruzzo, formano una zona geografica per molti aspetti uniforme, con poche pianure e troppi monti, con scarse risorse naturali e un'agricoltura mezzadrile piuttosto arretrata: alla fine dell'Ottocento le Marche si presentano come una delle regioni più povere del Regno . Alcuni dati confermano la gravità della situazione: l'enorme aumento delle emigrazioni, l'altissima percentuale di analfabeti e la preoccupante diffusione della pellagra. Ma, nonostante tutto, le Marche sono una delle regioni dalle quali lo stato preleva la maggior quota di imposte in rapporto alla ricchezza ed in cui spende meno per i servizi e quasi nulla per i lavori pubblici .

La protesta dei politici locali non tarda a farsi sentire: lo scopo è presentare le Marche come una regione più vicina al Sud che al Nord del paese, e quindi bisognosa di aiuti. Nei primi del Novecento la stampa nazionale si occupa del caso delle regioni centrali, ma è un interesse momentaneo, diretto solo all'influsso che il problema poteva esercitare sulla stabilità del governo. Un colpo gravissimo alle attività artigianali era venuto dalla politica protezionista che, per anni, aveva rallentato e inibito i processi commerciali. In effetti il protezionismo si rivelò costoso quanto inutile: l'industria, nonostante le alte imposte sui prodotti esteri, stentava a decollare, e l'agricoltura sembrava non avvantaggiarsi né dalle chiusure doganali né dai miglioramenti tecnici. I primi ad avanzare dubbi sulla politica del governo furono i ceti mercantili. Gradualmente si cominciarono ad affermare timide e pacate strategie liberali, fondate sul commercio e sul mercato. Per incrementare il commercio bisognava puntare sull'aumento della produzione agricola e scambiarla con merci estere al minimo prezzo: piuttosto che tentare di impiantare manifatture la cui materia prima si sarebbe dovuta importare, era consigliabile potenziare quelle la cui materia prima si sarebbe potuta trovare in loco. Per questo motivo la promozione dell'agricoltura è stata la condizione che ha permesso lo sviluppo che conosciamo nell'area marchigiana: non ci sarebbe stato commercio se la borghesia agraria locale, rinunciando a dedicarsi alle manifatture, non avesse permesso e favorito la crescita della produzione agraria. Le prime rilevazioni statistiche del dopoguerra mostrano che, all'inizio degli anni Cinquanta, le Marche erano una regione relativamente povera, con un'economia tutt'altro che dinamica, basata quasi esclusivamente sull'agricoltura, che occupava il 60 per cento degli attivi contro una media nazionale del 42 per cento .

La conduzione a mezzadria è, praticamente, l'unica forma diffusa e interessa gran parte della superficie coltivata, con pesanti riflessi sulla struttura insediativa e sulla dimensione delle famiglie. Possiamo dire, quindi, che, nella prima metà del nostro secolo, le Marche non hanno conosciuto una significativa industrializzazione . Tuttavia, i fattori che hanno permesso l'esplosione industriale postbellica sono da ricercarsi nell'evoluzione sociale dell'Ottocento. Per esempio, l'elaborazione manifatturiera di materie prime di origine agricola, quali bozzoli, lana, canapa, pelli, paglia, saggina e farine, portava ad attività destinate ad un precoce tramonto, di solito determinato dalle innovazioni tecniche come le materie prime sintetiche che sostituiscono quelle naturali, oppure dalla concorrenza di produttori nazionali ed esteri più competitivi. Inoltre notiamo la centralizzazione di laboratori artigianali, quali ciabattini, falegnami, sarti. Un terzo motivo di sviluppo sono le cosiddette industrie "coloniali". Il termine "coloniale" si riferisce agli investimenti provenienti dall'estero e orientati verso le Marche dall'esigenza di controllare monopolisticamente il mercato di approvvigionamento di materie prime, oppure per collocare prodotti caratterizzati da un forte vincolo di localizzazione a causa degli elevati costi specifici di trasporto.

In sintesi, la situazione economica marchigiana era tutt'altro che florida: nelle campagne dominava il sistema mezzadrile che poco si conciliava con uno sviluppo dell'agricoltura in senso commerciale e industriale. Nelle città era diffusa una manifattura a carattere familiare, spesso anche di grande qualità, ma che non aveva strumenti adeguati per trasformarsi in produzione in serie. La grande e antica tradizione manifatturiera, che affondava le radici nel Medioevo, si era trasformata nelle corporazioni artigiane e nel lavoro a domicilio di moltissime famiglie, impegnate soprattutto nella filatura e nella tessitura della lana. Questo modello cominciò ad andare in crisi quando ci si accorse che una produzione di più ampio raggio avrebbe permesso l'abbattimento dei costi e una maggiore diffusione dei prodotti. Le prime industrie del Nord d'Italia decisero di ampliare le loro dimensioni e di assumere manodopera stabile a basso costo, per diventare fornitrici di filati alle grandi industrie tessili inglesi e francesi . Questo significava assumere persone estranee al nucleo familiare, ma che non costassero molto di più di quello che sarebbe costato il lavoro della prole.

La forza-lavoro proveniva prevalentemente dalle campagne e consisteva in ragazzi giovanissimi che, abbandonata la scuola, cercavano lavoro e fortuna nelle città. Da un'indagine di Giuseppe Sacchi, pioniere dell'educazione infantile e dell'assistenza sociale, emerge che, nel 1840, in Lombardia, un ragazzo su tre non frequentava la scuola elementare, mentre uno su cinque trascorreva dodici ore al giorno nelle officine e negli opifici.

1.2. Aspetti della vita religiosa nella diocesi di Fermo

Per verificare quale fosse la sensibilità nei confronti di questi problemi nella diocesi di Fermo, si può rileggere il testo del Sinodo diocesano dell'anno 1900, promosso da mons. Roberto Papiri . Il testo permette di comprendere come fosse avvertita l'esigenza di alcune istituzioni-guida che favorissero un migliore tenore di vita delle persone attraverso iniziative caritative, e l'assistenza ricreativa dei giovani:

"Sunt et alterius generis societates vel consociationes quas temporum quibus vivimus conditio nedum summopere utiles, sed et necessarias reddit, vel ad conservandam in populo fidem, pietatem, religionem, vel ad inopiam miserorum sublevandam. Tales sunt societates catholicae mutui auxilii (società di mutuo soccorso) praesertim inter operarios, quos oportet ab insidiis sectae massonicae valide tutari, uti alias diximus; rustica aeraria (casse rurali) ad usurariorum aviditatem compescendam et inopiam ruricolarum sublevandam; conventus animis per dies festos relaxandis (ricreatori festivi); sodalitates iuvenum vel artificum vel studiis deditorum (artigianelli, sezioni giovani); opera vel infirmis adiuvandis vel viduis et pupillis defendendis (assistenza dgli infermi, tutela della vedova e del pupillo); aliaeque quamplurimae institutiones, quae vel directe animorum culturae prospiciunt (opere catechistiche, oratori festivi ecc.); vel inopiae sublevandae immediate consulunt (cucine economiche, dormitori economici, segretariato del popolo ecc.). Huiusmodi societates catholicas, ab Apostolica Sede saepius commendatas ac veluti imperatas, RR. Parochi sedulo promovere, fovere et adiuvare omnino debent. Non ea profecto Nobis mens est ut in singulis locis omnes hae societates instituantur; id enim impossibile prorsus foret; sed habita ratione locorum et personarum, una vel altera seligatur quam indigentiae tum spirituales tum temporales populi veluti exigere videantur".

Il modo con cui il sinodo affrontava alcune delle necessità dei fedeli mostra quale tipo di percezione si avesse della realtà ecclesiale. In altre parole, dobbiamo chiederci in base a quali criteri il sinodo stabilisse le priorità pastorali, soprattutto la funzione protettiva della chiesa, intesa a conservare la fede e la pietà nel popolo, a preservare gli operai dall'influsso della massoneria e ad attrezzare luoghi ritenuti idonei per la formazione e la catechesi giovanile. Due elementi emergono chiaramente. Il primo è la visione del laicato come oggetto di cura pastorale e non soggetto ecclesiale. Il clero ha il dovere di preservare e di educare i laici, proprio in forza di una diversa appartenenza alla chiesa, e quindi di un diverso ruolo. Il secondo è il tentativo, spesso riuscito, di costruire un duplicato del mondo civile; la chiesa, societas perfecta, deve avere al suo interno tutte le strutture che le permettano di non dipendere da istituzioni laiche e di offrire alle persone un'assistenza di qualsiasi tipo. Anche l'educazione era pensata con questi criteri e obiettivi. Va notato che il sinodo non riteneva opportuno che in ogni singola parrocchia ci fosse un punto di aggregazione, sia per la mancanza di forze, sia per la mancanza di ragazzi, perché sarebbero state poche le parrocchie con un numero sufficiente di giovani da permettere l'apertura di un oratorio. Invece erano auspicati luoghi interparrocchiali, più facili da gestire e in grado di offrire un servizio migliore. L'idea di un oratorio a Fermo era dunque nell'aria, anche se mons. Papiri non ebbe tempo di mettere in opera i progetti del sinodo.

Durante gli ultimi anni del suo episcopato, la Santa Sede inviò un visitatore apostolico a Fermo per costatare la situazione della diocesi e individuare le caratteristiche dell'eventuale successore. Nella sua accurata relazione, il visitatore, mons. Giovan Battista Nasalli Rocca (1872-1951), descriveva dettagliatamente gli aspetti più problematici del clero e del laicato. Ne viene fuori un quadro d'insieme molto significativo:

"(...) L'Arcidiocesi di Fermo conta 184.784 abitanti, 147 parrocchie con 378 preti e 19 istituti religiosi maschili, moltissime le comunità religiose femminili, moltissime e troppe le confraternite, numerose le istituzioni di azione cattolica e le pie associazioni. (...) Raro è il paese della diocesi di Fermo che possa dirsi immune dalla peste del socialismo. Vi fanno parte per lo più giovani spensierati, molti dei quali neppure sanno in che consista. Manca l'organizzazione e raramente si riuniscono, tranne in Montefalcone, che è stato sempre covo di repubblicani, anarchici e socialisti. Il socialismo arreca danni incalcolabili alle anime, perché diffonde ovunque l'indifferentismo religioso colle sue inevitabili conseguenze. Va data lode al Clero, che in genere parlando, lavora con zelo e abnegazione per paralizzare la nefasta propaganda socialista, con istituzioni sociali cattoliche di vario genere. (...) Il clero è piuttosto abbondante: ciò è causa di qualche malcontento, specialmente per la pluralità di offici conferiti a poche persone. Del resto, questo clero è docile, morigerato e pio. Non manca qualche eccezione, che però non può far meraviglia in un ceto così numeroso. Così non manca qualche modernità, ma scandali veri e propri, indisciplinatezza e offesa ai dettami espressi dalla S. Sede, (se si eccettua qualche articolo comparso sul giornaletto sovraccennato "La Libertà", articolo irriverente e stolto) non ve ne sono e tutto il Clero nella sua quasi totalità deplorò quegli scritti".

Fermo era la diocesi più popolosa ed estesa delle Marche; aveva un numero molto consistente di preti e una gloriosa tradizione di alti prelati. Molti vescovi fermani avevano prima esercitato il loro ministero in diocesi più piccole; spesso arrivavano già consacrati e con una certa esperienza alle spalle, segno della rilevanza riconosciuta da Roma alla sede fermana. D'altro canto, fino al 1895, Fermo era stata sede cardinalizia con personalità eminenti come Filippo De Angelis (1842-1877) e Amilcare Malagola (1877-1895).

La relazione descrive poi episodi meno rilevanti storicamente, come i litigi tra i parroci le cui parrocchie confinavano, e i disaccordi per la cattiva gestione dei benefici parrocchiali. Un lungo capitolo è dedicato invece al seminario:

"(...) E primieramente, quanto ai superiori, grande benefattore materiale del seminario è il ricco Rettore Bazzani, ma non ha contatto alcuno coi giovani Seminaristi, i quali sono in tutto e per tutto sotto la sorveglianza e vista educativa dei prefetti, sottoprefetti e decani, de' quali almeno uno o due sono sacerdoti, gli altri tutti Chierici in sacris, o meno. Ma purtroppo il Vice-Rettore ha un po' più di vicinanza cogli alunni, ma egli stesso confessa che non ha attitudine al suo ufficio e lo adempie per ubbidienza. (...) L'ampio locale non è sufficiente pei numerosi alunni e si è dovuto rimediare con due collegi succursali, Fontevecchia e Benvenga. Gli alunni interni sono 130 nel Seminario, 50 nei due succursali, più 20 esterni. Il detto locale poi non è adatto né per igiene né per la disciplina: esso invece dovrebbe servire per un bel Seminario teologico, trasportando altrove le sue scuole filosofiche e ginnasiali".

Il Seminario era una delle strutture da sistemare, sia materialmente, sia riguardo alla formazione. E' significativo che, pur con una grande abbondanza di preti, nessuno dei responsabili si sentisse pienamente adatto al ministero educativo; né il rettore, né il vicerettore erano entusiasti del loro compito. Questa lacuna sarebbe emersa più tardi con il diffondersi del murrismo.

Fermo si delinea come una città di studi: il "Montani", il "Sacconi", il "Fontevecchia", il "Benvenga" erano collegi adibiti all'ospitalità dei numerosi studenti che provenivano da fuori. Mons. Nasalli Rocca informa che la situazione del seminario era talmente inadeguata che molti seminaristi erano alloggiati provvisoriamente in questi collegi. Nel seminario, il visitatore trovava i primi latenti segni di modernismo e osserva che le autorità avevano assunto un atteggiamento di denuncia dei punti teoretici fondamentali, ma avevano anche sopravvalutato il problema. La paura del modernismo impediva la lucidità nel giudizio e la carità nella correzione. I risultati non sono stati certo soddisfacenti perché il tentativo di omologazione culturale, spesso, si risolveva nel suo contrario:

"Qui sul termine dirò non esservi dubbio che qui, come altrove, c'è un certo amore per le nuove idee di filosofia, di teologia e di critica ecc., un tempo sorsero libri e periodici e qualcuno mi disse essersi lette le opere di Gorki, di Tolstoi, di Rosetta e di altri non meno pericolosi, benché meno apertamente avversi alla Religione e Fede Cattolica; ora di nascosto corrono senza dubbio, non quelli messi all'indice ma altri. Nei superiori in generale v'è assolutamente contrarietà all'indirizzo delle idee così dette moderniste, e qualche volta, si vede modernismo un po' dappertutto, ma non si combattono forse nel modo più atto a ritrarne i giovani, i quali non persuasione, ma piuttosto timore induce a tacere e simulare. Converrebbe quindi usare la via appunto della persuasione piuttosto che quella della nuda e pura imposizione, trattandosi di giovani, che veramente, sia per pietà che per moralità non danno motivi a lamenti, anzi qualcuno fra i più caldi (questo me lo affermavano apertamente gli stessi superiori e lo costato io dall'ascolto minuzioso fatto) sono e per moralità e per pietà migliori degli altri. E senza fare torto ad alcuno, ha più giovato Mons. Artesi, che ha lasciato esprimere ai giovani le loro idee e le ha combattute, che non altri, che hanno voluto imporre di non tenerle, senza volerle né sentire né combattere. Anche una certa aria di indipendenza, che è uno dei mali grandi che corre sotto il nome cosiffatto di modernismo e forse ne è la essenza, è spirata qua entro queste mura, ma sono d'animo che se un bravo conferenziere o padre spirituale perseverante, con solido ragionamento, con nozione, dottrina, pazienza e pietà sapesse ben instillare nei giovani i grandi principi della ubbidienza e della umanità necessarie all'Ecclesiastico, senza esagerazioni, intemperanze ed aggressioni, riuscirebbe a togliere questo che è certo un male. Del quale assegna il visitatore varie cause, e tra esse le esagerazioni di coloro che combattono le idee nuove men buone combattendo anche le innocenti: così per es. (narro un aneddoto umoristico) non si voleva un cappello che a Roma, specialmente nell'estate, portano tutti anche i prelati rispettabilissimi (e lo scrivente stesso poco mancava non lo portasse a Fermo) perché cappello democratico! Ciò mi è necessario dire con tutta franchezza, perché credo che il torto sia da ambe le parti".

Questa ammissione parziale del visitatore ci inserisce nel complesso discorso sul modernismo politico. In una situazione di sostanziale stasi della diocesi di Fermo si cominciavano a delineare fermenti destinati a diventare sempre più considerevoli per la chiesa e per la società. Lo sviluppo e l'affermazione della corrente democratico-cristiana all'interno dell'Opera dei Congressi aveva prodotto una particolare animazione anche nelle Marche, dove Romolo Murri, originario della diocesi di Fermo, godeva di molte simpatie ed aveva stetti rapporti con sacerdoti e laici. La soppressione dell'Opera dei congressi, nel 1904, aveva provocato una profonda impressione: la liquidazione della corrente democratico cristiana e la delicata posizione in cui Murri si era venuto a trovare suscitano tensioni e perplessità tra il clero fermano e nello stesso seminario. Mons. Papiri incontrò forti difficoltà a ridimensionare e a controllare la situazione negli ultimi mesi del suo episcopato.

Nel 1906 la Santa Sede trasferì a Fermo il vescovo di Bobbio, mons. Carlo Castelli, come successore di mons. Papiri . La prima spinosa questione che mons. Castelli si trovò ad affrontare fu la gestione del caso Murri, di cui fu il mediatore tra il Pontefice e lo stesso Murri. Il vescovo, da un lato, era preoccupato di trasmettere fedelmente le iniziative del Santo Padre, dall'altro, era animato dalla sincera volontà di recuperare il giovane prete. Dal ricchissimo carteggio tra mons. Castelli e Murri emerge sempre il tono pacato dell'arcivescovo, la sua fermezza, ma anche la sua disponibilità al dialogo, anche quando i punti di frattura superarono per numero e importanza quelli di accordo.

Non è semplice stabilire fino a che punto Castelli esprimesse una posizione personale e fino a che punto fosse un esecutore di Pio X. La storiografia, quasi unanimemente, ritiene che tutta la questione fu trattata e gestita direttamente da Pio X, ma la documentazione prova che non tutti gli ordini del pontefice furono eseguiti passivamente.

Uno degli effetti del murrismo fu certamente l'irrigidimento della formazione dei chierici, tanto che nel Seminario Arcivescovile di Fermo furono allontanati sei diaconi con l'accusa di modernismo . Di questi, tre chiesero la riduzione allo stato laicale, tre furono riammessi al presbiterato dietro la presentazione del loro parroco. La repressione serviva a scongiurare il pericolo di diffusione delle idee moderniste, anche perché i giovani univano erroneamente la richiesta della democrazia politica con quella di una maggiore libertà dalla gerarchia. Essi confondevano facilmente due piani che invece Murri aveva sempre tenuto ben distinti. Sicuramente uno dei motivi per cui la condanna al modernismo assunse toni persecutori era il timore che la critica alle autorità civili fosse accompagnata da una polemica di natura ecclesiale. Quando Murri fu eletto deputato nel collegio di Montegiorgio, una quindicina di seminaristi gli scrissero una lettera di congratulazioni, commettendo l'errore di firmarla. La lettera arrivò alla redazione di un giornale anticlericale, La voce dei liberi, che pubblicò un articolo in cui si derideva la divergenza tra i provvedimenti ufficiali della curia nei confronti di Murri e il consenso dei seminaristi. L'articolo faceva espressamente riferimento ad alcune lettere di solidarietà a Murri firmate da un gruppo di chierici. I superiori del seminario passarono dal sospetto all'azione. Querelarono La voce dei liberi per diffamazione, ma, ritenendo verosimile l'esistenza della lettera, aprirono un'inchiesta e tutti i seminaristi furono chiamati a discolparsi .

Mons. Castelli non era pregiudizialmente contrario alle novità. Non possiamo neppure dire che fosse un conservatore nel senso odierno del termine. Egli dimostrò uno spirito aperto ed intelligente, ad esempio quando fece suonare la marcia reale in seminario tra lo scandalo dei seminaristi e dei professori, oppure quando al Ricreatorio San Carlo benedisse per prima la bandiera tricolore e tenne un'omelia sul duplice ideale di chiesa e patria . Castelli aveva una formazione ambrosiana, caratterizzata da una vita di pietà, un certo interesse per lo studio e un carattere attento e inflessibile. Non a caso aveva portato con sé il vicario generale, mons. Nogara, per iniziare meglio il lavoro che lo aspettava. Aveva una preoccupazione molto sentita per il sociale; la sua esperienza lo portava ad interessarsi dei disagi economici dell'industria manifatturiera e dell'artigianato, ma anche dei ceti più indigenti. Si racconta che spesso, di notte, facesse visita a qualche famiglia delle più povere della città, per portare qualche vestito e qualcosa da mangiare. Le sue iniziative pastorali miravano a coprire tutti gli aspetti del vivere umano, perché tutte le occasioni erano propizie per evangelizzare. In questa ottica vide la situazione giovanile come una delle più difficili da gestire. Per la quaresima del 1909 scrisse una lettera pastorale sull'educazione giovanile rivolta al clero ed ai genitori, ai quali si rivolgeva in questi termini:

"La gioventù è sempre stata cosa difficilissima, e ciò oltreché per la sua impulsività, incostanza e debolezza, per la sua prepotente inclinazione al godere: difficilissima quindi l'arte di ben educare i giovani, e troppo frequenti i traviamenti da deplorarsi in essi. (…) Ai dì nostri si dà grande importanza e si cerca con ogni sforzo senza badare né a sacrifici né a spese, il bene materiale dei figliuoli: la sanità del corpo, lo sviluppo delle forze fisiche, l'istruzione, la buona posizione sociale, una agiatezza più che discreta; questo è ciò che si cerca, che si vuole ad ogni costo; la coltura dello spirito, la formazione delle sante abitudini, Dio, la sua legge, la sua dottrina, i doveri che a Lui ne stringono, quando non siano sfacciatamente disconosciuti e disprezzati, sono dalla grande maggioranza dei moderni genitori riguardati o conosciuti con tale e tanta leggerezza e superficialità, che forse è peggiore e arreca più danni che non la trascuranza stessa" .

L'atteggiamento verso gli adolescenti era paternalistico e protettivo, dettato anche dal fascino preoccupante che le associazioni massoniche e socialiste esercitavano sui più giovani. Era necessario avvicinare i giovani prima di altri e indirizzarli sul retto cammino della fede: restava da pensare il modo in cui attuare tutto questo. Un altro scritto di mons. Castelli ricordava come spesso l'atteggiamento del cristiano di fronte al mondo dovesse essere di resistenza e di opposizione. Il tesoro maggiore che un cristiano ha e che è chiamato a difendere è la fede e la vita spirituale. Quando si perdono queste due dimensioni interiori si è destinati a brancolare nel buio dell'errore, lontano dalla verità e da Dio: "Non che le opere degli infedeli siano peccati, come ebbero a dire alcuni eretici, giustamente condannati dalla Chiesa; no, questo è errore: le loro buone opere sono sempre lodevoli e moralmente buone: non saranno però mai buone di quella bontà soprannaturale che possa renderle accette a Dio, in ordine alla vita eterna" . Il nucleo dell'omiletica di mons. Castelli verteva su un'immagine sostanzialmente pessimistica della società laica. Si ha l'impressione che per l'arcivescovo non potesse esistere una vera comunità di persone a prescindere dalla fede cristiana. I titoli delle prime lettere pastorali, Salviamo la gioventù e Salvate la fede, sono indicativi di un atteggiamento preoccupato e polemico nei confronti del mondo moderno. La fede era legata alla sacramentalità del battesimo, alla dottrina tomista del carattere; era quasi assente la prospettiva di un cammino personale e comunitario di conversione. L'atteggiamento religioso e l'agire cristiano delle persone erano dati per presupposti. Per questo la fede andava più che altro conservata o salvata, ma quasi mai costruita.

1.3. Il nuovo modello degli Oratori

La grave situazione sociale e religiosa dell'Italia del tempo ebbe conseguenze inevitabili: il disagio delle categorie più svantaggiate si trasformò presto in microcriminalità, con un incremento dei furti e del piccolo brigantaggio. La città di Fermo non era preparata ad affrontare questi problemi; si era sempre limitata a reprimerli demandando alla chiesa la formazione dei giovani e la loro assistenza. Un fenomeno comune a tutta l'Italia, fin dai primi anni dell'Ottocento, fu la nascita di numerosi alberghi dei poveri e opere pie, quest'ultime sotto il patrocinio delle diocesi o di istituti religiosi. La chiesa non aveva mai elaborato una pastorale giovanile vera e propria. Si tratta di un fatto facilmente spiegabile: nella società rurale la situazione giovanile non era un problema rilevante, dato il precoce inserimento dei bambini nella vita lavorativa . Il contatto con i giovani era inteso a partire dal modello tridentino del catechismo e della messa: gli elementi essenziali per la vita di un giovane erano la sacramentalizzazione e la catechesi, come si evince dalla progressiva precocità dell'accostamento ai sacramenti dell'iniziazione cristiana, fissato da Pio X intorno ai sei anni .

Ma la gran parte dei fanciulli rimaneva estranea ad una proposta di questo tipo. Gli oratori, almeno nel modello borromaico-ambrosiano, erano già attivi da tre secoli, ma non rappresentavano niente di più significativo di quello che offrisse la parrocchia. Si hanno delle notizie sui primi oratori alla fine del '400: erano concepiti come luoghi di formazione spirituale e di culto, con l'intenzione precisa di essere di aiuto ai più giovani, di preservarli dai "pericoli della strada" ed educarli nelle nozioni fondamentali della fede. Per quanto queste iniziative assumessero spesso un carattere aristocratico, magari collegandosi con collegi per lo studio gestiti da religiosi, vi erano in esse, almeno potenzialmente, gli elementi del futuro oratorio di massa. Gradualmente lo sviluppo si è definito su due grandi binari: il primo è quello che si prefiggeva la formazione integrale del giovane, il modello filippino, raccolto intorno alla proposta dello studio, della morale alfonsiana e delle devozioni. Il secondo è quello salesiano che si rivolgeva prevalentemente alle situazioni di marginalità . Ma il nucleo dei contenuti era lo stesso. L'intuizione salesiana prende inizio proprio dalla constatazione della fine di un modello dottrinale, legato esclusivamente alle parrocchie, poiché tanti ragazzi arrivavano in città dai paesi limitrofi e rischiavano di non integrarsi in un tessuto parrocchiale precostituito . Inoltre erano superati anche il linguaggio e il metodo. Una sera don Bosco, attraversando la chiesa per andare in sacrestia durante l'omelia, notò alcuni ragazzi che sonnecchiavano seduti ai piedi di un altare laterale. Sottovoce chiese perché stessero dormendo. I ragazzi, interpellati amichevolmente, risposero: "Non capiamo niente della predica, quel prete non parla per noi!" .

Questo episodio descrive emblematicamente le barriere che un certo tipo di giovani incontrava nella parrocchia: il loro modo di pensare e di vivere non permetteva il contatto con nessun altro alveo che quello dell'amicizia accogliente. Lo stesso don Bosco si rendeva perfettamente conto della necessità della parrocchia e, allo stesso tempo, della sua insufficienza. La pastorale di attesa passiva del giovane in chiesa o in sacrestia per il catechismo non era più incisiva. Occorreva diventare parrocchia dei senza parrocchia, "la parrocchia dei ragazzi abbandonati" . Pensò allora ad una iniziativa che potesse coniugare catechesi e formazione umana, non legata ad una pievania ed ai suoi confini territoriali, ma alla sua persona e a quanti l'avrebbero aiutato. Il progetto educativo salesiano non derivava da uno studio teorico delle possibilità pedagogiche, ma dall'esigenza di coinvolgere i giovani che non avevano altre alternative, "i vagabondi, quelli che girano per le vie e per le piazze, esseri derelitti che tosto o tardi diventano il flagello della società e finiscono con l'andare a popolare le prigioni" . Una caratteristica essenziale degli oratori salesiani era lo spazio dedicato al gioco e alla ricreazione, caratteristica che divenne denominatore comune di ogni associazione o circolo giovanile. L'aspetto ludico della pastorale dei giovani, come abbiamo detto, non esisteva: lo stesso don Bosco non intendeva il gioco come un momento fine a se stesso, avulso dalle altre attività. Era piuttosto parte dell'educazione globale della persona che doveva confrontarsi con la realtà in tutte le sue forme. Di qui il privilegio dato alla ginnastica e alle escursioni in montagna, rispetto alle carte o ai giochi di squadra competitivi come il calcio.

Gli oratori erano intesi come alternativa al mondo civile: nei più dotati vi era di tutto. Si poteva imparare a leggere e scrivere, oppure un lavoro, vi si potevano depositare i propri risparmi; era possibile divertirsi, oppure ricevere i sacramenti ed essere istruiti in materia di fede. L'oratorio era, insomma, un mondo autosufficiente. Dapprima lo scopo di tutto ciò era quello di supplenza nei confronti dello Stato, poi divenne la contrapposizione con il nascente stato liberale e laico. La chiesa tendeva a ritagliarsi propri spazi perché si vedeva privata di quella funzione educativa che aveva gestito per secoli. Basti pensare al problema della scuola: solo nel 1910 lo stato assunse direttamente l'onere di creare scuole elementari, perché prima era stato affidato ai comuni. Ma in realtà questo non comportò immediatamente una scolarizzazione effettiva. Fino agli anni venti, e sempre con alte percentuali di assenza, la scuola fu considerata ancora un lusso. La chiesa continuò a mantenere scuole in maniera capillare per molti anni, perché lo stato, teoricamente, voleva essere garante dell'educazione, ma in pratica non aveva le strutture per farlo.

 

Capitolo secondo
Le origini del Ricreatorio San Carlo

2.1. Fondazione del Ricreatorio a Fermo

Il giorno dell'ingresso in diocesi, mons. Castelli rimase colpito dall'ampio parco di via Trevisani e subito chiese al sindaco, che gli sedeva vicino, a chi appartenesse1. Il fondo era stato di proprietà dei marchesi che intitolavano l'omonima via, poi era passato alla proprietà municipale. Il vescovo pensò fin dal primo momento di farne un oratorio sul modello di quelli lombardi, e scelse un giovane prete per affidargliene la direzione. Il sacerdote si chiamava don Biagio Cipriani, aveva appena ventitré anni quando fu ordinato e venticinque quando fu mandato a Milano per vedere e studiare una realtà tanto nuova ed efficace, quanto sconosciuta nelle nostre zone: avrebbe dovuto imparare il metodo educativo praticato negli oratori e riportarlo in diocesi.

Il giardino scelto da Castelli era quanto di meglio si potesse avere a disposizione: uno spazio molto ampio, ricco di piante e di aiuole, ma privo di strutture. Quando il vescovo vi fece erigere la prima costruzione adattata a teatrino, i gruppi massonici e anticlericali la chiamarono "lo stallone"2. Era un salone polivalente, dedicato a Pio X, che sarebbe dovuto servire alla catechesi giovanile, a conferenze, spettacoli e manifestazioni sportive. Il salone fu inaugurato il 24 luglio 1909, dopo gli ultimi ritocchi. Appena don Cipriani ritornò dalla Lombardia, comprensibilmente entusiasta e pieno di idee, il vescovo gli affiancò altri due giovani preti, don Massimiliano Massimiliani, più tardi vescovo di Modigliana (1931-1959), e don Federico Barbatelli3. Mentre questi ultimi due avevano incarichi riguardo la formazione culturale e spirituale dei giovani, Cipriani era responsabile generale del Ricreatorio e, in poco tempo, divenne con la sua personalità il punto di riferimento di tutti. Stava accadendo quello che anche don Bosco aveva anticipato: il successo dell'istituzione oratoriale non era dovuto a chissà quali alchimie pastorali, ma alla figura carismatica degli assistenti ecclesiastici. Il consenso crescente intorno al Ricreatorio era determinato non solo dall'efficacia delle attività proposte, ma soprattutto dal rapporto personale che cominciava ad instaurarsi tra i ragazzi e i loro formatori.

2.2. Il primo responsabile: don Biagio Cipriani

Don Biagio Cipriani era nato a San Pietro in Lama (Lecce) il 16 luglio 1884 da Aurelio e Maria Massetti, entrambi marchigiani. Il padre, maceratese, si era trasferito in Puglia in quanto impiegato statale. Rientrando nelle Marche, la famiglia si stabilì a Fermo, città natale della madre. Entrato giovanissimo in seminario, don Biagio seguì un iter di formazione sicuramente convincente: i suoi compagni di camerata erano, Lino Lauri, Federico Barbatelli, Luigi Petetti ed il fratello Filippo, più tardi vescovo di Città di Castello (1934-1956). Di questi, Barbatelli e Petetti furono amici e collaboratori anche al Ricreatorio5. Terminati gli studi, Cipriani fu ordinato sacerdote da mons. Castelli il 25 maggio 1907. Per il fatto di essere di buone capacità, l'arcivescovo gli affidò l'insegnamento appena diventato prete, in un periodo molto delicato per la diocesi. Questo non lo rese immune dal subire accuse di modernismo. Per lui si scomodò addirittura lo stesso Pio X, che, in una lettera del 30 luglio 1907 a mons. Castelli, manifestava la forte preoccupazione di purificare gli ambienti del seminario da ogni influenza modernista, in modo tale che tornasse ad essere un luogo educativo e rassicurante per i candidati al sacerdozio. Per essere certi di una seria verifica della disciplina, Pio X esortava a rimuovere dall'insegnamento e "da qualsiasi altra ingerenza" alcuni professori, tra cui don Cipriani:

"Illustrissimo e Reverendissimo Monsignore, la risposta alla lettera dei Rev. Vescovi della Regione Picena fu già spedita al Sig. Arcivescovo di Camerino, che si farà premura di darne copia a tutti i suoi confratelli. Il rev. don Murri, che trova pure tempo di corrispondere coi giornali e di scrivere sulla cultura, non l'ha trovato ancora per rispondere alla sua lettera. Ella però né lo solleciti, né prenda alcun provvedimento; lo lasci in pace quasi non appartenesse alla sua Diocesi. Prendo parte vivissima ai suoi timori e alla sua angoscia pei giovani che, finito l'anno scolastico, vanno alle loro famiglie, perché purtroppo è micidiale anche l'aria che si respira adesso nel mondo. Per prevenire poi qualunque pericolo per l'anno venturo, quando rientreranno nel Seminario, Le raccomando di deputare alla disciplina quei prefetti che Le diano la più ampia garanzia di pietà, non solo, ma di fede rettissima immune affatto anche dal sospetto di certe idee tanto dannose. Anzi per il bene del Seminario e della Diocesi troverei necessario che Ella licenziasse dall'insegnamento e da qualunque altra ingerenza nell'Istituto i preti don Silvio Basili, don Biagio Cipriani e don Gustavo Corradi. Che se tale provvedimento Le dovesse recare qualche dispiacere, dica pure che Ella non fa che eseguire gli ordini del Santo Padre"6.

La severa richiesta di Pio X non è facilmente comprensibile; comunque non trovò applicazione da parte del vescovo Castelli, almeno per quello che riguarda Cipriani, che non solo non fu rimosso dall'insegnamento, ma ricevette l'incarico di responsabile della pastorale giovanile della città. Inoltre, quando mons. Nogara fu nominato rettore del Pontificio Seminario di Chieti, intorno agli anni venti, mons. Castelli gli propose addirittura di ricoprire il ruolo che era stato del suo vicario nel Seminario di Fermo. Non conosciamo la ragione di queste decisioni: il vescovo non tenne conto delle esortazioni del pontefice, decise di affidare il Ricreatorio a Cipriani e più tardi gli chiese di occuparsi del seminario7. Se è difficile intuire i motivi delle iniziative del vescovo Castelli, lo è ancor di più capire il motivo per cui il pontefice avrebbe voluto estromettere don Cipriani dall'insegnamento. Infatti l'esperienza di Buonaiuti o di Murri era stata comprensibilmente diversa, perché, avendo avuto una rilevanza nazionale su giornali e riviste, erano costretti a difendersi per le loro idee, o anche solo per qualche formulazione equivoca. Di Don Biagio Cipriani non si poteva dire niente di tutto questo. Non solo non era un teologo, ma era completamente sconosciuto alla diocesi, essendo stato ordinato da pochi mesi. Le accuse riguardavano dunque il periodo di formazione in seminario, dove sarà stato facile confondere gli entusiasmi giovanili con la sintonia per le idee moderniste. Ovviamente, come abbiamo già accennato, il seminario di Fermo fu oggetto di una sorveglianza speciale, perché era considerato una fucina di seguaci di Murri, e per le diverse lettere che gli manifestavano, in forma anonima, piena solidarietà. Di lettere simili ne furono recapitate molte, alcune indirizzate a lui personalmente, altre dirette agli organi che dovevano giudicare il suo caso.

Don Biagio Cipriani non era un intellettuale a tempo pieno; era, piuttosto, un uomo impegnato nell'azione e non avrebbe avuto il tempo per approfondire una disciplina in particolare. Non era dunque un teologo, né un filosofo dal discutibile impianto teoretico, non un letterato né uno storico dal metodo critico. Nel seminario insegnava lettere e francese; le sue letture preferite erano Pascal e il "proibito" Rosmini8. Ma se un motivo ci deve essere per le critiche che Pio X gli rivolse, questo certamente non va cercato nel ruolo di docente, ma in quello più influente di educatore: è in questo campo che si è esercitata di più l'opera di Cipriani. Il centro della sua attività non è stato tanto innovare una prassi che, per molti aspetti, era superata, ma vivere tutta l'azione della chiesa in maniera nuova, cioè, prima di tutto, facendo in modo che fosse compresa da tutti. Questo a cominciare dalla liturgia, di cui egli era un appassionato: fu uno dei primi a leggere in italiano alcune parti della Messa, a voltarsi con l'altare verso l'assemblea, ad indossare un'ampia casula, a parlare di partecipazione attiva all'Eucaristia e di mistero Pasquale, ad avere un rinnovato interesse per la Scrittura9. Alessandro Bellucci nota polemicamente che tutte queste riforme ebbero termine alla sua partenza dal Ricreatorio: probabilmente l'allusione era indirizzata a don Mario Scoponi, che aveva preso le redini del San Carlo dopo il 192610.

Un'anticipazione molto seria fu l'introduzione dell'educazione sessuale. Per avviare un discorso il più possibile rigoroso, sia scientificamente sia moralmente, Cipriani si servì dei rari libri esistenti, tutti scritti in inglese e in francese. Dobbiamo richiamare il fatto che ci troviamo ad inizio del secolo, quando non solo la morale non si era occupata molto di questi temi, ma nemmeno la medicina aveva dato un contributo rilevante. Tutto questo veniva coniugato con attività ricreative, alcune nuove in assoluto, come il calcio, la ginnastica, l'atletica, il teatro e il cinema muto. Questo era il punto di partenza: creare un interesse contagioso intorno al Ricreatorio per avvicinare i più giovani e coinvolgerli in una proposta cristiana. Non bisogna sottovalutare che gli utenti del San Carlo erano quasi esclusivamente studenti. Molti provenivano da lontano per frequentare il celebre Istituto Tecnico Montani che, all'epoca, aveva molti professori affiliati alla massoneria11. Per tanti giovani il San Carlo era l'unica possibilità di un rapporto con la chiesa, e anche per questo fu fatto oggetto di continue derisioni. Il ruolo dei formatori non era quindi facile: si doveva costruire un dialogo, spesso senza poter contare su un presupposto religioso. Da questo primo approccio, diverso rispetto al passato e senz'altro più affascinante, si passava solitamente ad una conversazione informale e generica con tutti. Lo studio di don Cipriani era sempre gremito di ragazzi con i quali discuteva dei loro problemi, confrontandoli con il catechismo della chiesa cattolica. Da questa straordinaria esperienza con i giovanissimi maturò la convinzione che, spesso, il linguaggio ecclesiastico non era comprensibile a tutti. Così decise di scrivere Il catechismo del ragazzo12, pubblicato molto più tardi, ma il cui impianto risale a questi anni. Il Catechismo era un volumetto sintetico ed aggiornato del catechismo di Pio X e della teologia tridentina, dove Cipriani sintetizzava la sua esperienza pastorale e catechetica. Il testo non conteneva novità teologiche fondamentali, ma, attraverso la forma classica della domanda e della risposta, riusciva ad essere accessibile a tutti.

Il metodo delle domande e delle risposte brevi, da memorizzare, era stato ampiamente sperimentato dal Catechismo di Pio X. Nel piccolo compendio di Cipriani era però diversa la distribuzione della materia da affrontare, disposta secondo tre nuclei fondamentali: inizio della vita di Grazia, la vita di Grazia, la legge della vita di Grazia. La precedenza andava al cammino di sacramentalizzazione che ogni persona era chiamata a vivere. L'iniziazione cristiana introduceva in un piano di vita soprannaturale: la vita di Grazia richiedeva una serie di obblighi e adempimenti. Per questo era messa alla fine la parte morale del catechismo. Evidente è la fisionomia del giovane destinatario del testo: un giovane inserito in un ambiente cristiano e chiamato, in età adolescenziale, a maturare una fede salda e, per certi versi, in contrapposizione con lo spirito dei tempi. Forte è l'esortazione alla comunione frequente e al culto eucaristico: "Dopo la Santa Comunione, quanto tempo resta in noi Gesù Cristo? Finché durano le sacre specie, e perciò bisogna restare in preghiera il tempo necessario. Perché l'Eucaristia è il più grande dei sacramenti? Perché negli altri sacramenti si riceve la Grazia, mentre nell'Eucarestia si riceve l'autore della Grazia. Perché si conserva nelle chiese la SS. Eucarestia? Perché Gesù vuole essere sempre in mezzo a noi e ricevere le nostre preghiere"13. La confessione e la comunione erano prescritte almeno una volta all'anno, ma il catechismo non mancava di ricordare quanto fosse utile una frequenza maggiore: "Che cosa ci ordina il terzo precetto della Chiesa? Ci ordina di confessarci almeno una volta l'anno e comunicarci almeno a Pasqua. Perché nel terzo precetto c'è la parola "almeno"? Perché l'obbligo è una volta l'anno, ma la Chiesa desidera che ci confessiamo e comunichiamo spesso. E' utile confessarsi spesso? E' utilissimo confessarsi spesso per purificarsi e per crescere nella virtù. E' cosa buona ed utile la Comunione frequente? E' cosa ottima ed utilissima la Comunione frequente, anche ogni giorno, purché sia fatta bene. Qual è il giorno più bello della vita? Il giorno della prima Comunione"14. Troviamo anche qualche rapido riferimento all'idea di stato confessionale che il giovane era tenuto a costruire. La società civile deve essere intimamente legata a quella ecclesiale perché da questa compenetrazione deriva il bene dei cittadini: "Le leggi civili debbono sempre andare d'accordo con le leggi di Dio e della Chiesa? Sì, le leggi civili debbono sempre andare d'accordo con le leggi di Dio e della Chiesa , per il bene dei cittadini. Quali sono le autorità che il quarto comandamento ci ordina di onorare? Le autorità ecclesiastiche cioè il Papa, i Vescovi, i Sacerdoti e le autorità civili. Perché si dev'essere soggetti alle autorità civili? Perché ogni autorità viene da Dio. Ma perché bisogna sempre obbedire? Perché chi obbedisce fa la volontà di Dio"15. Abbiamo già detto che il giovane che si intendeva raggiungere e formare attraverso il catechismo doveva già essere inserito in una realtà catechistica ed avere i rudimenti della fede. La catechesi aveva un impianto "autoritario": non prevedeva dialogo o discussione delle tesi. La finalità era l'inserimento pieno nella vita cristiana attraverso i sacramenti, visti come momenti di passaggio, e una corretta condotta morale. Inoltre il Catechismo intendeva creare il senso di determinati doveri cristiani secondo una spiritualità di tipo liguoriano: erano i doveri del "proprio stato di vita", primo fra tutti il rispetto della gerarchia, dato che il giovane avrebbe fatto parte della chiesa discente, la pratica delle virtù, il compimento degli obblighi del matrimonio e, specialmente, l'educazione cristiana della prole. Tutte le azioni del cristiano dovevano avere il mistero eucaristico al centro della vita; questo spiega la grande devozione per il culto eucaristico che arrivava a sostituire ogni altra pratica religiosa.

Il Catechismo non era un trattato sistematico di morale o di teologia; non conteneva niente che non fosse stato già ampiamente detto e scritto. Non vi erano novità rilevanti rispetto alla pietà tradizionale ed alla spiritualità laicale dell'epoca. Fu presentato e pubblicato con tutti gli onori, anche perché libri simili non erano molti diffusi, e quindi, nel suo genere, il testo era un'opera rara.

Il Ricreatorio iniziò la sua attività con questo tipo di spiritualità e totalmente inserito nei problemi che abbiamo accennato. I primi anni di lavoro furono un successo: anche i più scettici si dovettero convincere che l'oratorio era un serio strumento pastorale.

2.3. La prima guerra mondiale

La prima guerra mondiale interruppe i progetti e gli entusiasmi: il San Carlo fu trasformato in un ospedale della Croce Rossa e gli assistenti, don Biagio Cipriani e don Mario Scoponi, furono chiamati in guerra. Ma non tutto si fermò. Un laico, il maestro Luigi Trasatti, si occupò, durante tutto il periodo della guerra, dei ragazzi che non erano stati chiamati al fronte, ed avevano ormai trovato nel Ricreatorio un punto di riferimento. Per impedire che perdessero il contatto con la scuola, li radunò in una ex palestra di via Perpenti organizzando ripetizioni scolastiche, catechismo ed attività ricreative. Su questa attività nascosta sappiamo molto poco, anche se è stata di un importanza straordinaria perché ha inaugurato l'impegno dei fermani per il loro Ricreatorio, ed ha permesso la sussistenza della struttura16. Questo permise di riaprire il Ricreatorio il 25 gennaio 1920 senza dover ricominciare daccapo. Nel primo dopoguerra tutte le associazioni trovano un consolidamento e uno sviluppo imprevisti. Era notevole la richiesta e l'esigenza, soprattutto da parte dei più giovani, di ritornare alle attività ordinarie, quasi di esorcizzare la guerra attraverso la volontà di ricostruzione. Niente di tutto quello che era stato fatto prima del 1915 andò perduto, il numero di soci triplicò, passando da 90 a 250, le attività si moltiplicarono e il San Carlo iniziò a farsi conoscere anche al di fuori delle Marche17.

 

Capitolo terzo
Le attività dal 1909 al 1926: tra festa e altare

3.1. La polisportiva Victoria

Mons. Castelli, affidando la direzione del Ricreatorio a don Biagio Cipriani, scriveva: "Bisogna chiamarvi i giovani con l'attrattiva dello sport: il resto verrà"1. Le iniziative sportive nella città di Fermo erano preesistenti al Ricreatorio, nel senso che in città erano già diffusi molti degli sport moderni. Tuttavia non esistevano forme associative. Spesso anche nelle grandi città mancavano luoghi idonei dove radunare i ragazzi. Don Bosco ricordava la sua insistenza per ottenere in affitto case rurali, appartenenti a ricchi proprietari terrieri, e le frequenti proteste dei vicini infastiditi dal chiasso. Alle origini il San Carlo incontrò le stesse difficoltà, pur rappresentando una delle istituzioni maggiormente gradite ed apprezzate da tutta la cittadinanza fermana. Nel Ricreatorio furono accolte e organizzate le tradizionali attività ricreative già esistenti, e ne furono avviate di nuove. L'obiettivo principale era la realizzazione di un'associazione che rappresentasse un'occasione di incontro tra vita pastorale e attività sportiva. Con questo scopo, il 4 dicembre 1909, fu fondata la società sportiva Victoria, grazie all'interesse e alla collaborazione di alcuni laici: Pasquale Cisbani, Carlo Petracci, Lot Bernardi, Luigi Fagioli2.

La Victoria comprendeva quattro discipline: ginnastica, ciclismo, escursionismo e calcio. La ginnastica e l'atletica leggera furono le prime attività a diffondersi e svilupparsi, perché ritenute più sane e formative rispetto ad altri sport. Nei primi mesi del 1910 si tennero allenamenti assidui nell'attrezzistica, nella corsa veloce, in quella campestre, nel mezzofondo, nelle gare di salto, nel lancio del peso e del giavellotto. Ginnastica e atletica leggera, in un primo momento, erano fuse tra loro; successivamente la ginnastica si sviluppò coinvolgendo un notevole numero di atleti, mentre l'atletica perse importanza, poiché fu fondata una squadra di atletica cittadina che attirò le forze migliori. Organizzatori e promotori della sezione di ginnastica furono i professori Giandomenico De Santis, Attilio Poncini, Pietro Baldassarri. L'opera di quest'ultimo è stata particolarmente importante non solo per gli straordinari riconoscimenti ricevuti dallo sport nazionale, ma soprattutto perché Baldassarri ha guidato la Victoria tra le due guerre, traghettandola quasi indenne dal fascismo agli anni Cinquanta. Fu infatti nel secondo dopoguerra che la Victoria ottenne i maggiori successi, anche perché negli anni Trenta le attività si erano limitate a concorsi interni senza valore. Nel 1910 si concretizzarono quelle proposte che univano la gioventù fermana e ponevano il Ricreatorio tra le istituzioni più vivaci della diocesi. Il 3 luglio il primo anno associativo si chiuse con una grande manifestazione pubblica, a cui furono invitate le personalità cittadine e le famiglie dei ragazzi. Si trattava del primo impatto con la cittadinanza fermana e per questo la cerimonia fu preparata con molta cura.

Mons. Castelli, visibilmente soddisfatto per i primi frutti del San Carlo, decise, dopo quella occasione, di estendere la Victoria all'escursionismo. Essendo egli stesso un appassionato, organizzò corsi per i principianti e provvide a fornire al Ricreatorio tutte le attrezzature necessarie. Il vescovo partecipò ad una delle prime uscite insieme ad un centinaio di ragazzi, il 14 settembre 1910. Le mete delle escursioni erano solitamente i vicini monti Appennini, in particolare il Vettore, il monte Sibilla, l'Argentella, Pizzo Borghese, il massiccio del Gran Sasso. Nell'escursionistica maturarono molti giovani che parteciparono alla prima guerra mondiale come alpini distinguendosi per coraggio ed eroismo. Mons. Castelli aveva conosciuto la montagna da giovane, grazie a mons. Achille Ratti, di cui era nota questa passione, ed era ben felice di trasmettere a sua volta ai giovani del Ricreatorio questa esperienza. In effetti, l'escursionistica fu una delle iniziative maggiormente promosse dall'arcivescovo, tanto che la riconoscenza dei giovani fermani portò a cambiare nome al salone Pio X, che divenne salone San Carlo, in onore del grande vescovo milanese e del suo omonimo fermano. L'escursionismo fu sempre una caratteristica dell'aggregazione giovanile, da un lato perché l'idea del cammino si avvicinava all'idea della vita che si voleva suggerire, dall'altro perché la vicina montagna offriva, nel periodo estivo, un modo per uscire dal solito ambiente quotidiano.

Sempre nel 1910 fu costituita la sezione ciclistica, che non ebbe grande seguito. Svolse la sua attività solo fino al 1922, sempre in ambito locale, e vide la partecipazione di un nucleo ristretto di persone. Si ha notizia di due gare, disputate a S. Elpidio e Ascoli Piceno, in cui la Victoria ciclistica ottenne i primi posti.

Un'altra attività che non riscontrò un immediato successo fu la Pallacanestro. Il primo torneo cittadino fu organizzato a Fermo nel maggio del 1925; la Victoria si classificò al secondo posto. Ma tutto si spense senza esito. La pallacanestro continuò ad essere praticata solo in forma amichevole ed interna al Ricreatorio. Il primo campionato ufficiale di prima divisione fu disputato solo nel 1946, grazie all'impegno di Mario Stortini, quando la fine della guerra permise la ripresa delle attività. Nel 1914 si costituì anche una sezione di scherma che però ebbe vita breve. Durante l'estate si svolgevano attività balneari, tra cui un originale contributo venne dal canottaggio, praticato "al mare con imbarcazione propria perché i giovani, nel periodo balneare, non frequentassero ambienti ben controllati"3. Più tardi cominciò la pratica del tennis, che trovò origine al Ricreatorio ma fu praticato per pochi anni, fino ad essere integrato nel circolo cittadino. La scherma e il tennis erano considerati sport elitari e, dopo aver inizialmente affascinato i giovani di Fermo, non trovarono più molto consenso. Dopo la seconda guerra mondiale tornarono ad essere praticate tutte quelle attività che avevano avuto i natali in questo periodo.

Lo sport che ha riscosso più successo al San Carlo è stato il calcio, non tanto perché ha avuto molti riconoscimenti e vittorie, quanto per l'interesse e l'entusiasmo che ha suscitato in tutti i fermani. Il motivo del successo va attribuito alla novità assoluta e alla semplicità del gioco. Lo stesso don Biagio descrive il modo rocambolesco con cui si era procurato il primo pallone da calcio arrivato nel fermano: lo aveva acquistato per dodici lire da un gesuita inglese residente a Firenze, padre Strikland. Il pallone proveniva direttamente dall'Inghilterra, ma nessuno conosceva le regole del gioco ancora sconosciuto; basti pensare che la società sportiva Fermana Calcio sarebbe stata fondata solo nel 1920. Per muovere i primi passi si presero informazioni da un'edizione francese del Regolamento. Il pallone durò cinque mesi; alla fine, tutti erano diventati esperti ed appassionati. Le prime partite furono giocate contro altri istituti ed associazioni. Una, diventata celebre, risale al 4 giugno 1911 contro la Robur di Macerata. Dal 1923 la Società Calcistica della Victoria si affiliò alla F.I.G.C. e incontrò spesso anche la Fermana e squadre di paesi limitrofi.

3.2. Le iniziative culturali

La prima significativa iniziativa culturale del Ricreatorio San Carlo è rappresentata dalla società teatrale Nova Juventus, voluta personalmente da Cipriani, che aveva notato la passione e l'interesse dei giovani per il cinema, che stava muovendo i primi passi. Il 30 gennaio 1910 il salone Pio X ospitò la prima rappresentazione, consistente in due commedie distinte: Pane e coscienza e la Camera incantata. Subito dopo furono proposti Scacco matto, Piccolo Parigino, Guglielmo, I Folletti, Vietato fumare, il Pittore disperato, il Fotografo in imbarazzo, Britannico, nonno Ercole, Memorie del Diavolo. Questi primi lavori, semplici e lineari nello svolgimento, facevano parte del tipico repertorio oratoriale ed avevano prevalentemente contenuti educativi e morali. Per quanto coinvolgessero molto i ragazzi nella preparazione e nell'allestimento, gli spettacoli non erano artisticamente e poeticamente rilevanti. A volte si sfiorava la banalità nell'esagerare le conseguenze di un'azione negativa, e non si lasciava spazio che al solito ritornello secondo cui il cattivo è destinato a perdere sempre. Riportiamo alcuni stralci di una commedia di Natale intitolata Meglio al Presepe che al cinematografo:

"Personaggi: Sofia e Adele. Sofia: Dove andasti ieri sera? Adele: Oh! Bella! non lo sai? Sono andata al cinema colla mia cara mamma che mi vuole tanto bene, e mi contenta in tutto, perché dice che io sono la sua gioia e il suo idoletto. S. La mia mamma non mi dice mai queste sciocchezze. A. E' segno che non ti vuol bene. S. Anzi è tutto il contrario. L'educazione sdolcinata non è un balsamo, ma è un veleno; e sono barbare nemiche dei loro figliuoli quelle madri che li contentano in tutto. A. Oh, la baccellona che sei! Già hai la patente di non capire nulla. S. A dirlo ci vuol poco; ma non sai che dicono tutti coloro che capiscono qualche cosa? Eh! Povera Adele, stai sull'orlo di grandi precipizi e non te ne accorgi. A. Eccoti con le solite prediche! Ma non siamo di Quaresima, sai… Lasciamo andare questi discorsi perché tanto non possiamo trovarci d'accordo. Dimmi piuttosto: e tu dove sei stata ieri sera? S. Sono stata a visitare il santo Presepio. A. Me l'aspettavo! Tu sei brava soltanto ad andar dietro a queste devote sciocchezze e ridicole puerilità… Cara Sofia, la vuoi intendere che i tempi sono cambiati, e che non è più l'epoca delle capannucce? (…) S. Rispondi un po': qual mercede ti darà Iddio in Paradiso per essere stata al cinema di tuo capriccio e portatissima per tali divertimenti? A. Che ricompensa vuoi tu che mi dia il Signore per essere stata al cinema? Sara grassa se faremo conti pari, ma ci spero poco. S. Brava la mia merlotta! Sei caduta nella rete senza avvedertene. Benissimo. Ho vinto io, e la palma me l'hai data in mano proprio tu. A. Adesso mi confondi le idee, e allora non posso più ragionare. S. Non c'è pericolo che ti imbrogli, perché non ho mai fatto questo mestiere. I buoni principii ogni tanto vengono a galla, quando li abbiamo posseduti una volta, e così è successo a te. Tu hai confessato che l'andare al cinema non è di nessun vantaggio per l'anima tua, anzi hai paura che questo cinema ti debba costar caro nel mondo di là; e persuaditi che ti costerà carissimo per tante faccenduole che io so e che ti fanno vergogna. Invece a me, che rinunzio al cinema e me ne vado ai presepi, succede tutto il contrario. Io santifico quelle ore ricreandomi a gloria di Dio, ed aumento così il patrimonio dei miei meriti per la vita futura: il S. Paradiso"5.

La rappresentazione mirava a dissuadere gli adolescenti dalle cattive abitudini, talvolta apprese in famiglia, attraverso la logica semplicistica di una delle protagoniste. Si invitava a privilegiare iniziative religiose piuttosto che svaghi mondani, a guadagnarsi la retribuzione del Paradiso, ad ottenere la grazia per condurre una vita moralmente ordinata. Si cominciava generalmente con una tesi da dimostrare, e si procedeva finché il ragionamento e il buonsenso non costringevano ad ammettere la veridicità di quanto affermato. Il tono delle conversazioni aveva un forte contenuto parenetico, mirava cioè alla dissuasione di tutto ciò che poteva allontanare dalla fede e da Dio. Il cinematografo era uno dei grandi ostacoli contro cui il Ricreatorio si trovò ad operare. Non potendo arginare il fascino che esercitava sugli adolescenti, dal 1919 si creò un cinema nel salone Pio X: "Dopo la guerra mondiale, con gravi sacrifici fu aperto il Cinema Famiglia, con gravissimi sacrifici funzionò, date le difficoltà del tempo, specialmente per la scelta dei film"6. Altre rappresentazioni avevano temi religiosi, la devozione al Sacro Cuore, la carità, i sette peccati capitali, la giustizia divina, la dannazione eterna, le tentazioni, i comandamenti, le opere di misericordia corporali e spirituali. Spesso il teatro diventava una rara occasione catechistica per le famiglie che accompagnavano i ragazzi. Non è difficile trovare nei copioni la critica agli adulti dal comportamento ambiguo, rappresentati sempre dagli stessi personaggi negativi, oppure da macchiette stereotipate. I contenuti riguardavano generalmente la chiesa, la fede e la pietà dell'epoca. Interessante è la trattazione del tema vocazionale, in un dialogo intitolato Che cosa è la vocazione religiosa:

"Personaggi: Pierino e Mario. P. Sai la novità? M. No, quale? P. Gigino si fa prete! M. Prete! (meravigliato) P. Si, l'ho lasciato solo un'ora fa e m'ha detto che, appena fatti gli esami di quinta, andrà in Seminario. M. E perché va in Seminario? P. Oh bella, perché sua madre lo vuole! Qualche volta l'ho sentita anch'io dire alle sue amiche: "Quando Gigino sarà grande ne farò proprio un sacerdote. Bella cosa fare il sacerdote, si gode una vita comoda, agiata, senza pensieri, senza fastidi! E poi, è ancora l'unica professione che non teme disoccupazione!… M. E sua madre lo vorrebbe sacerdote per questo? Per guadagnare denari? Ma non sai che il sacerdote deve somigliare a Gesù, il quale ha detto: "Come hanno trattato me, tratteranno anche voi; vi mando come agnelli in mezzo ai lupi" e tu capisci bene la sorte dei primi fra i secondi… Guarda ad esempio il nostro signor Curato, dopo tanti anni di ministero è sempre povero, fa la carità a tutti, e si leverebbe il mantello, come ha fatto S. Martino, per darlo al bisognoso. P. Questo è vero, e nessun povero torna dalla casa del sacerdote senza essere beneficato. M. Eppoi, per essere sacerdoti, bisogna essere chiamati da Gesù, che solo ha il diritto di eleggere i dispensatori delle sue grazie, i continuatori della sua opera, come il padrone ha il diritto di scegliere i suoi operai, il generale i suoi soldati. (…) P. Non so capire però, come in certi paesi ci siano tanti chiamati al sacerdozio e in altri nessuno. M. Il sacerdozio è un dono grande di Dio, dobbiamo meritarlo e chiederlo con la preghiera, come ci ha insegnato Gesù: "La messe è molta e gli operai sono pochi; pregate pregate il padrone che mandi dei buoni operai nella sua vigna. (…) P. …per condurre a Gesù tante anime e farci santi. Oh bravo, e un'altra cosa possiamo fare: offrire l'obolo nostro, perché coloro che Iddio chiama, e non hanno mezzi sufficienti per studiare, possano essere aiutati. E' strano ma evidente: Iddio chiama quasi sempre i suoi sacerdoti fra i poveri. M. Oh questo lo fa certamente per offrire, a coloro che possono, il mezzo di farsi grandi meriti. P. Ho capito, e spero che avrete capito anche voi (al pubblico) M. Vedi Pierino, il nostro signor Curato, anche lui è figlio di una umile famiglia; il Signore lo chiamò, lo fece suo ed oggi eccolo in mezzo a noi a lavorare, a soffrire, a piangere, a fare del bene alle anime nostre"7.

L'attività teatrale ampliò il suo repertorio negli anni Venti, introducendo i principali rappresentanti della letteratura italiana ed europea. Il livello culturale crebbe notevolmente quando furono presentate le opere, per quanto ridotte, di Molière, Alfieri, Goldoni e, più tardi, Pirandello, e recitate le poesie di Leopardi, Pascoli e Manzoni.

Il mondo culturale fermano del primo Novecento, come abbiamo ricordato, era fortemente influenzato dall'anticlericalismo massonico e socialista da un lato, e dallo spirito apologetico ed intransigente dei cattolici dall'altro. La dialettica maggiore si esprimeva nelle discussioni polemiche delle numerose riviste esistenti, tra cui spiccavano per importanza e diffusione La voce delle Marche, La Mosca e La Lotta. Gli studenti che frequentavano il San Carlo respiravano questo clima di diffidenza e di scontro, e ricevevano stimoli culturali molto divergenti tra loro, spesso radicalmente opposti. Il giovane studente che frequentava il San Carlo si trovava a recepire le idee cardine del laicismo liberale parallelamente a quelle dell'intransigentismo cattolico. Il Ricreatorio contribuì al dibattito emergente con una rivista, Cultura Giovanile, fondata nel 1910 e diffusa fino al 1923. La rivista divenne un punto di riferimento notevole per la semplicità del linguaggio adottato, e perché molti degli interventi provenivano dagli studenti stessi. Le testimonianze orali raccolte concordano nel riconoscere l'importanza di questo rivista, ma di essa non rimane alcun fascicolo. Inoltre, si diede inizio ad un circolo culturale intitolato a Silvio Pellico, diviso in due sezioni, una di studenti, fondata nel 1911 ed una di operai, fondata nel 1914. La sezione operaia, anche se non ebbe un grande successo numerico, era tuttavia uno dei primi tentativi di sviluppo della costituzione di nuclei nel mondo del lavoro dopo la Rerum Novarum, e rappresentava, nel fermano, l'unica alternativa al mondo sindacale. Coordinatore di queste iniziative era don Federico Barbatelli. Di lui ricorda mons. Alessandro Bellucci, suo amico e giovanissimo collaboratore: "Direttore e anima della rivista era don Federico Barbatelli, professore di storia ecclesiastica in seminario, già compagno di studi a Roma dell'attuale Segretario di Stato cardinale Cicognani. Uomo coltissimo, di straordinaria intelligenza e chiarezza di idee, egli era sempre pronto ad aiutare chi desiderava approfondire i massimi problemi. Una terribile malattia lo sottrasse troppo presto alla sua luminosa attività"8. La rivista Cultura Giovanile non ebbe vita facile perché era attaccata su due fronti: doveva rispondere alle polemiche degli anarchici e dei socialisti, ma anche a chi, nella chiesa, la accusava di essere vicina alla più celebre Cultura Sociale, fondata e diretta da Murri.

3.3. Lo scoutismo

Come è noto, la nascita dello scoutismo in Italia si deve al maestro elementare genovese Mario Mazza, che nel 1905 fondò la Juventus iuvat, un'associazione giovanile antenata del gruppo esploratori. Nello stesso periodo, in Inghilterra, usciva un volumetto intitolato Scouting for boys, a cura dell'ex generale inglese Baden Powell. La gioventù inglese e le autorità militari accolsero con favore questa pubblicazione, permettendo la nascita di un movimento che, in poco tempo, si diffuse anche all'estero. Mazza vedeva nello scoutismo un sistema efficace per contrastare l'estraneità della scuola nei confronti della vita dei giovani. La scuola era su programmi "enciclopedici e frammentari, razionalistici, artificiali, insufficienti, che istruiscono ma non educano"9. Il fine del movimento era, dunque, educativo e pedagogico. Per realizzare il suo progetto, Mazza scrisse alle più eminenti personalità della politica, della cultura e della chiesa dell'epoca, chiedendo appoggio per realizzare il tentativo molto ambizioso di "far uscire dalla scuola arida, togliere dall'egida dei programmi governativi, dagli strettoi privilegiati, l'azione educativa, portarla all'aperto, libera, amorosa, intensa, per farla fruttare meglio"10.

La chiesa ebbe, all'inizio, un atteggiamento di diffidenza verso l'opera di Mazza. Prima di tutto per i pricipî che guidavano il movimento, decisamente aconfessionale e apolitico. Inoltre era discussa l'eccessiva importanza data alla ginnastica e alla natura, a scapito delle pratiche religiose tradizionali. L'istituzione era vista come una semplice aggregazione giovanile, spesso dipendente dalla massoneria e profondamente influenzata dal protestantesimo, anche se formalmente aconfessionale. Le altre associazioni cattoliche avevano sempre un chiaro fine religioso-morale, mentre per lo scoutismo di Mazza questa preoccupazione non era prioritaria. La promessa che si faceva entrando a far parte del gruppo, ad esempio, non aveva un riferimento immediato alla religione cattolica, ma si limitava a ricordare un dovere generico verso Dio, mentre era fortemente sottolineato il valore della coscienza individuale, della tolleranza, dell'impegno personale. Inoltre era ritenuto fondamentale il rapporto con la natura in quanto tale, ritenuta strumento di elevazione umana e spirituale. Tutto questo non faceva che allontanare il gruppo di Mazza dalla chiesa romana, che temeva l'intiepidirsi della fede dei giovani. I gesuiti furono tra i primi a prendere le distanze dal movimento, seguiti da molti altri ordini religiosi, anche se, tacitamente, continuava una certa collaborazione tra la gerarchia e la base. Nel 1915, la posizione della Civiltà Cattolica si pronunciava sull'argomento, esprimendo sia l'opinione della Compagnia sia quella ufficiosa della chiesa:

"Basterà qui richiamare i due cardini principali sui quali si aggira questo nuovo sistema educativo: 1) educazione fisica per mezzo di speciali esercizi destinati a dare robustezza e spontaneo ardimento; 2) educazione morale e formazione del carattere fondata sul sentimento dell'onore. Ora una parte dà, se non massima, certo esagerata importanza allo sviluppo e addestramento fisico (detto impropriamente educazione); l'altra assegna come motivo dell'azione virtuosa un principio puramente esteriore e superficiale: ambedue concorrono ad una formazione morale e civile naturalistica, molto simile alla maniera degli spartani"11.

Chiesa e scoutismo si trovavano su posizioni molto diverse, pur avendo un reciproco bisogno. La chiesa perdeva terreno nei confronti delle giovani generazioni, mentre gli scouts, nella originale versione inglese, avevano sempre avuto un'attenzione particolare per la fede degli aderenti, fatta di rispetto e di fedeltà alla propria scelta. Era dunque necessario trovare un punto di incontro. Nel 1912, per iniziativa del prof. Carlo Colombo, nacque il Corpo nazionale dei Giovani Esploratori Italiani, una versione laica dello scoutismo. La chiesa ebbe l'impressione e il timore di rimanere estranea dall'evoluzione educativa e di perdere un'occasione preziosa di incontro con i giovani. Per questo, nel 1914, si arrivò alla nascita dello scoutismo confessionale, i Ragazzi esploratori cattolici, sempre coordinati a livello nazionale da Mazza.

I motivi dell'accordo non riguardavano solo esigenze pastorali della chiesa. La Reci nacque per interesse degli stessi aderenti, che videro possibile un'affermazione solida in Italia solo attraverso la collaborazione con la chiesa cattolica. La subordinazione delle tematiche proprie dello scoutismo alle scelte ideali della chiesa era il prezzo da pagare per ottenere dalla gerarchia ecclesiastica quell'appoggio che poteva consentire all'associazione di sopravvivere e di diffondersi su scala nazionale. In realtà, gli Esploratori cattolici erano un sottogruppo dei Giovani esploratori italiani. Tra loro, al di là degli accordi formali, non esisteva una vera collaborazione, tanto che la gerarchia ecclesiastica continuava ad essere scettica perché non vedeva rispettate le esigenze di culto degli Esploratori cattolici. La convivenza non era stata mai molto chiara, ma si faceva sempre più visibile la differenza tra lo scoutismo aconfessionale e quello cattolico. Le strade da percorrere erano due: insistere nella costituzione di sezioni autonome di scouts cattolici all'interno del Corpo nazionale dei giovani esploratori, oppure creare un'associazione confessionale totalmente nuova. Si affermò questa seconda ipotesi, con la nascita dell'Associazione scoutistica cattolica italiana, nel gennaio del 1916. Il conte Mario di Carpegna, già impegnato nelle associazioni sportive cattoliche, fu nominato commissario centrale.

Lo scoutismo fermano ripercorse, in sede locale, le vicende nazionali. Un primo nucleo ebbe inizio al Ricreatorio San Carlo nell'aprile 1915, come sezione della società sportiva Victoria: "La società sportiva Victoria di Fermo, riunita in adunanza straordinaria, -si legge ne La Voce delle Marche del 24 aprile del 1915- ha votato all'unanimità il seguente ordine del giorno: considerando che l'Istituzione dei giovani esploratori (boy scouts) è teoricamente e praticamente buona per l'educazione morale, civile, patriottica della gioventù, la Victoria si fa iniziatrice della costituzione a Fermo di una sottosezione del Corpo Nazionale dei Giovani Esploratori (GEI)". L'iniziativa ottenne l'approvazione delle autorità e di molte personalità influenti, che contribuirono all'apertura anche con il sostegno economico. La divisa era a carico degli iscritti, costava 2,5 lire e si limitava solo al cappello. Un gruppo di adulti si divise le responsabilità della gestione: il Conte Giovanni Vitali Rosati, Domenico Astorri, Giuseppe Trasatti presieduti dal Conte Paolo Emilio Sacconi.

Il 15 aprile 1916 Mario di Carpegna scrisse una lettera a don Biagio Cipriani in cui si compiaceva dell'operato della sezione scout, e dove mostrava un certo interesse perché il gruppo dei giovani esploratori aderisse alla nuova associazione scoutistica cattolica italiana. Si tratta del più antico documento autografo che testimonia l'esistenza del Fermo I:

"M.R. sac. Biagio Cipriani vicepresidente della sottosezione fermana dei G.E.I. In risposta alla pregiata sua del 13 corr., mi compiaccio con Lei del buon andamento dei Giovani Esploratori appartenenti al Corpo Nazionale; e sono sicuro che, se essi potranno continuare come vivamente le auguro sotto la Sua buona influenza, a fruire della educazione scoutistica integrale, non disgiunta cioè dalla vita spirituale e dalle pratiche religiose, essi saranno di buon esempio a tutti i loro piccoli colleghi d'Italia. Nelle poche linee che precedono la pubblicazione, per parte della "Giunta Speciale dei Giovani Esploratori", dello statuto e delle norme esplicative per la Associazione Scoutistica Cattolica Italiana, tra l'altro è detto che "rimarrà sempre nei voti delle Presidenze della G.C.I. e della F.A.S.C.I. il desiderio di cristiana concordia e di fraterna cooperazione coi Giovani Esploratori Italiani". Finché nella sua coscienza rimarrà una fondata speranza di raggiungere questa fraterna, santa concordia; finché la Sua presenza nella sottosezione di Fermo le permetterà di ottenere che dei fanciulli cattolici credenti e praticanti appartengano al Corpo Nazionale dei G.E.I. senza detrimento dei loro doveri, dei loro sentimenti, della loro dignità di cattolici, la Sua opera, nonché da noi censurabile, potrà essere da noi altamente apprezzata, e certamente lo sarà. Con questo augurio, e ringraziandola dei Suoi voti di prosperità per la nostra A.S.C.I., godo confermarmi Suo devot.mo. Il Commissario centrale Mario di Carpegna. Post Scriptum 20 aprile. Mando la presente per non più tardare. Avrei voluto farla approvare dai colleghi del Cons. Centrale, ma per causa degli esercizi spirituali molti consiglieri appartenenti alla G.C.I. mancarono alla seduta di martedì 18, la quale non trattò che affari non soggetti a discussione".

Il passaggio auspicato non avvenne immediatamente, probabilmente a causa della guerra che limitò ogni attività. Gli scouts, durante il primo conflitto mondiale, esercitarono il loro servizio in collaborazione con il Comitato di Mobilitazione Civile e con la Croce Rossa. Ma la lettera del Conte Mario di Carpegna non cadde nel vuoto. Il 4 maggio 1923, don Biagio Cipriani scrisse all'ASCI chiedendo di censire ufficialmente il nucleo fermano:

"Questa Società Sportiva che vive da quindici anni non ingloriosamente, pur restando nel campo ginnastico con la sua squadra e nei diversi rami dello sport cui chiede e dà l'attività sua, ha fondato un Riparto Scautistico di cui chiede l'immatricolazione. I giovani dimostrano molto entusiasmo. Durante la guerra questa nostra società si fece iniziatrice, per ragioni di opportunità, di una sezione Esploratori del Corpo Nazionale. La sezione era fra le prime d'Italia per la sua serietà e attività, secondo il giudizio dei dirigenti. Il Corpo Nazionale si sciolse a guerra finita e ormai non ha più speranza di risurrezione. I giovani cattolici che vi partecipavano si son tutti iscritti al nuovo Riparto e parecchi della Sezione Nazionale passati poi al Circolo Giovanile Cattolico tornano con noi alla vita scautistica. Porgiamo il saluto riverente ai nostri Dirigenti tutti, pregando che l'immatricolazione non tardi".

La lettera spiegava, seppure sinteticamente, i motivi per cui il Reparto Fermo I° aveva inizialmente aderito ai Giovani Esploratori, e confermava l'intenzione di mantenere l'associazione scout interna alla Società Sportiva Victoria. La risposta del Commissariato Centrale arrivò subito e il primo censimento avvenne il 1° dicembre 1923. Nel modulo si descrivevano le caratteristiche del gruppo, tra cui il colore giallo-azzurro del fazzoletto, il francese come lingua parlata, oltre, naturalmente, all'italiano. Nei primi anni si susseguirono come direttori Alceo Zavaldi, Luigi Tombolini, Pietro Paglialunga e Marcello Seta. Gli assistenti ecclesiastici furono don Biagio Cipriani fino al 1925, e don Mario Scoponi dopo il 1926. In realtà, don Cipriani rimase a Fermo anche nei primi mesi del '26, ma il censimento compiuto nel mese di dicembre non lo nomina. L'adesione all'ASCI del reparto Fermo I° risale all'8 maggio 1923. Il reparto era composto da quattro squadriglie: Leoni, Falchi, Aquile e Rondini. Nel 1923 l'associazione contava ventuno iscritti, nel 1924 trentuno, nel 1925 venti, nel 1926 diciannove, nel 1927 ventotto. Complessivamente il numero degli aderenti ufficiali oscillava tra le venti e le trenta unità, mentre i partecipanti alle manifestazioni erano molti di più, poiché molti giovani non avevano mezzi per pagare l'uniforme e garantire un impegno costante, ma avevano interesse ed entusiasmo a partecipare alle attività generiche.

3.4. L'Azione Cattolica

Tra le iniziative sorte al San Carlo un posto particolare spetta all'Azione Cattolica, nata grazie al sostegno personale di mons. Castelli e alla collaborazione di don Biagio Cipriani. Come per lo scoutismo, il Ricreatorio San Carlo può vantare la primogenitura diocesana dell'Azione Cattolica. In una intervista del 18 aprile 1943 a don Roberto Massimiliani, lo stesso don Cipriani ricorda il fermento dei movimenti giovanili cattolici e la nascita dei primi gruppi antenati dell'ACI:

"Domanda: che esisteva in diocesi di Azione Cattolica quando don Biagio Cipriani cominciò la sua attività? Risposta: cominciai nel 1909. A quanto ricordo nulla esisteva di vera e propria Azione Cattolica giovanile; vi era soltanto qualche pia associazione di Luigini. Domanda: vi erano associazioni aggregate alla Gioventù Cattolica? Quali? Risposta: come sopra, nessuna. Domanda: l'Opera dei Congressi aveva avuto una Sezione Giovanile? Chi se ne era occupato? Risposta: sì, vi era una Sezione; credo che dei capi siano stati l'oggi defunto ing. Randi e mons. Cicconi (…) Domanda: quando fu fondato il Consiglio Regionale della Gioventù Cattolica? Dove ebbe sede? Per quanto tempo fu diretto da don Biagio? Risposta: prima degli attuali ordinamenti le Federazioni erano diocesane e i relativi presidenti costituivano il Consiglio Regionale, il quale eleggeva il Presidente Regionale. Le diocesi che non avevano federazioni dovevano avere un incaricato. Il sottoscritto per circa quindici anni (dal 1910 al 1925) fu prima Presidente e poi Assistente Regionale delle Marche. La sede della presidenza era Fermo; la Cultura Giovanile era organo ufficiale, ma le adunanze del Consiglio Regionale si tenevano nei vari centri più importanti della regione. Prima del sottoscritto credo ci sia stato un solo Presidente Regionale, cioè l'avvocato Amos Boccaccini di Pesaro che morì tragicamente in un incidente automobilistico. Domanda: quanti e quali circoli contavano allora le Marche? La diocesi? E più tardi, verso il 1923? Risposta: quando presi la presidenza regionale i Circoli giovanili nelle Marche erano una quindicina; nell'arcidiocesi di Fermo, come si è detto, non ve ne era alcuno, neanche il Circolo Silvio Pellico che fu costituito ed aggregato più tardi. Verso il 1923 i Circoli nelle Marche dovevano essere circa 150".

Questa intervista, che in molti tratti assume la familiarità di un colloquio, risale ad un anno prima della morte di don Biagio, ed offre molte informazioni preziose sull'andamento e sulla strutturazione delle associazioni giovanili cattoliche, tra cui quelle aventi sede al San Carlo. Il sostegno del Ricreatorio a favore dell'AC non era un'iniziativa personale degli assistenti ecclesiastici, ma trovava la sua origine ed il suo impulso nel pastore della diocesi, come era avvenuto per molte altre attività. Quando mons. Castelli arrivò a Fermo, l'Opera dei Congressi era già stata chiusa, e con essa si erano spente tutte le vivaci associazioni che facevano riferimento al movimento cattolico. Tuttavia, era molto diffusa la volontà di superare il momentaneo stallo politico, e quelli che erano stati i primi fermenti che avevano animato la diocesi in maniera capillare, fin nelle periferie, erano pronti a riorganizzarsi. L'azione politica doveva, però, essere coniugata con la sfera religiosa ed interagire con essa, per evitare il duplice rischio di sociologismo da un lato e di spiritualismo dall'altro. Il vescovo aveva chiarito più volte questa linea nelle lettere pastorali. Mons. Castelli aveva sempre creduto che il fondamento della pastorale giovanile dovesse essere la catechesi classica in una forma rinnovata e brillante, magari unita a pratiche di pietà contemplate dalla tradizione. Tutto ciò sarebbe dovuto servire a far maturare al giovane una coscienza di cristiano e di cittadino, di persona libera ma spontaneamente sottomessa alla gerarchia, di individuo facente parte allo stesso tempo della chiesa e della comunità civile, e dunque chiamato a testimoniare il Vangelo con le scelte della propria vita. Questa impostazione trovava la sua applicazione ideale nell'ACI.

Il San Carlo organizzò la formazione della Gioventù Cattolica in coerenza con i principi seguiti dall'AC a livello nazionale: 1- Il primo compito era centrare la propria azione per la causa della chiesa nella salvezza delle anime, cioè fornire ad ogni associato gli strumenti per la santificazione personale e per un'azione feconda nella società. 2- L'ecclesialità intesa come devozione alla Santa Sede, come amore verso il papa. Forte è l'influenza del Concilio Vaticano I: il papa è la pietra fondamentale dell'edificio spirituale, essere con il papa significa avere la garanzia di essere con la chiesa. 3- Lo studio della religione, in cui si collocano le iniziative culturali di cui don Cipriani stesso ci ha dato testimonianza. Per studio della religione, o scuola di religione, è da intendersi quello che oggi chiamiamo catechesi, e che era portato avanti da mons. Capotosti. Di fronte all'indifferenza del mondo moderno, era percepito come un compito essenziale quello di rendere ragione della propria fede. 4- La testimonianza considerata il principale atteggiamento evangelizzante, l'unico strumento in grado di compensare le frequenti crisi dell'età giovanile e le avversità dell'ambiente. 5- La carità intesa come soccorso generico di chi ne ha bisogno. Il giovane cattolico era chiamato a rendere visibile il comando evangelico dell'amore attraverso le forme esistenti nella chiesa, come la conferenze di Vincenzo de' Paoli, gli ospizi cattolici, i Pii Sodalizi. Tutto il programma veniva riassunto nel trinomio: preghiera, azione, sacrificio.

Parallelamente alla Gioventù Cattolica, nacque nel Ricreatorio, anche se non si diffuse in diocesi, la prima sezione della FUCI. Una lettera del comitato centrale certifica la fondazione del primo nucleo nel 1916 ed il conferimento della nomina di primo presidente a Marcello Seta. La FUCI, come ricorda lo stesso don Cipriani, non ebbe un grande sviluppo, perché non esisteva a Fermo un ateneo di prestigio che richiamasse una numerosa presenza di studenti universitari. La FUCI si limitò ad offrire un'assistenza spirituale agli studenti che, risiedendo fuori, tornavano alle loro famiglie per il fine settimana.

3.5. l Ricreatorio e la pastorale cittadina: novità e tradizione

Le parrocchie di Fermo avevano recepito ed apprezzato il contenuto educativo dell'azione di don Cipriani, ma fondamentalmente continuavano a dubitare dell'utilità di tali iniziative. Il motivo di questo atteggiamento va ricercato nel fatto che il clero era fermo ad un'immagine della società che era quella rurale, legata ai ritmi dell'agricoltura, alla devozione verso i santi, alle Rogazioni, alla benedizione delle campagne. Non era richiesto un approccio religioso diverso, perché le trasformazioni sociali, nel mondo rurale, erano molto lente, non paragonabili ai cambiamenti dei borghi. Inoltre il clero viveva legato profondamente alle forme di pietà tradizionali e faticava non solo a pensarne di nuove, ma anche ad accettare quelle proposte da altri. In definitiva, non sarebbe stato possibile instaurare un diverso rapporto con gli adolescenti, poiché i sacerdoti non erano formati per sostenerlo. Il Ricreatorio, e la pastorale giovanile in genere, richiedevano l'abbandono della mentalità clericale, a vantaggio di un confronto sincero e libero sui temi principali della dottrina cattolica. Questo tipo di rapporto non si poteva improvvisare, ma implicava una lunga preparazione che sarebbe servita a motivare la ragionevolezza delle scelte del cristiano. Il catechismo basato su domande e risposte faceva fronte all'esigenza di non consentire obiezioni e dibattito, e di imporre mnemonicamente una serie di concetti, risultando rassicurante per i formatori. Anche la liturgia esprimeva questo tipo di mentalità: il rito latino, incomprensibile ai più, non costituiva una vera celebrazione comunitaria, ma era recepito piuttosto come l'offerta di un sacrificio del celebrante al quale assisteva l'assemblea. La messa dialogata in italiano, introdotta al San Carlo fin dai primi anni del secolo, trovò grande opposizione non solo perché era una novità troppo grande per essere capita in pienezza, ma anche perché obbligava ad un confronto non mediato con l'assemblea che si aveva di fronte. Non si vuole sostenere che il latino servisse solo da schermo, ma certamente vi era un legame diretto tra liturgia ed ecclesiologia, nel senso che la liturgia esprimeva il tipo di ecclesiologia che si intendeva promuovere.

Rimane da precisare che cosa si intendesse per messa dialogata, se un commento del celebrante al rito eucaristico, o un'omelia che aveva i ragazzi come interlocutori. Infatti è da escludere una celebrazione totalmente in italiano come quella odierna, sia perché non esistevano le traduzioni ufficiali, ed è assai improbabile che i testi fossero stati tradotti dagli stessi formatori, sia perché una simile innovazione non sarebbe stata tollerata. Don Biagio Cipriani commenta questo periodo del San Carlo ricordando le principali attività pastorali: "Nel Ricreatorio si cominciò con la Messa festiva, che dopo qualche anno divenne dialogata, e con la scuola di religione che proseguì costantemente e con programma ampliato ed aggiornato; la Domenica delle Palme si faceva solennemente la Comunione Pasquale con la Messa di mons. Arcivescovo. In seguito: comunione mensile, adorazione nel I° venerdì del mese nel Santuario del Pianto, mese di Maggio, partecipazione al Corpus Domini, ecc. ecc. Da notare che in occasione del Congresso Eucaristico Regionale a Fermo fu costituito anche un gruppo universitario della FUCI, il quale, però, ebbe una vita grama. In seno al Circolo Silvio Pellico fu costituita e funzionò benino una sezione giovanile della Conferenza di S. Vincenzo de' Paoli".

Va osservato anche che molte delle novità espresse dal San Carlo non potevano realisticamente essere attuate altrove. Il Ricreatorio poteva permettersi l'introduzione di queste innovazioni perché usufruiva della collaborazione di forti personalità. In un primo momento la direzione spirituale fu affidata a don Luigi Capotosti, più tardi cardinale, successivamente a don Massimiliano Massimiliani, poi vescovo di Modigliana, e don Marcello Manfroni, padre spirituale in seminario per circa mezzo secolo. Il lavoro formativo non gravava solo su don Biagio; molte scelte pastorali erano fatte d'intesa con il vescovo e in accordo con molti "esperti" di gioventù. In altre parole, non è paragonabile l'impostazione del San Carlo con quella di una parrocchia, perché troppo diverse erano le realtà in cui si era chiamati ad operare. Don Biagio ricorda che il clero era per lo più indifferente, pur non assumendo una posizione pregiudizialmente ostile, e ricorda anche il fondamentale ruolo di promotore e di garante esercitato dall'arcivescovo Castelli: "Il clero sapeva e vedeva che l'opera che si svolgeva per la gioventù era voluta e diretta da mons. Arcivescovo e perciò nessuno faceva visibile opposizione. Non mancava qualche superzelante che suffiava a Roma e mons. Arcivescovo per qualche manifestazione patriottica di cui sopra ebbe qualche fastidio. In genere posso dire che i confratelli sacerdoti hanno guardato alla nostra attività giovanile con favore. Ricordo che una volta un vecchio canonico mi disse: per il lavoro che fai io ti dispenserei anche dalla recita dell'Ufficio".

I parroci continuarono a porre problemi sul metodo della pastorale giovanile, sull'opportunità e sull'utilità del Ricreatorio. Alle questioni teoriche si sostituirono quelle pratiche, che riguardavano il contributo economico che ciascuna parrocchia era chiamata a versare al San Carlo. Era prevista una ripartizione delle spese in base alle utenze, che non vedeva però d'accordo le parrocchie più vicine al Ricreatorio che avevano una frequenza maggiore. Si raggiunse una forma di sostentamento mista: una parte dei contributi veniva dalle parrocchie e una parte dal fondo diocesano. Il Ricreatorio ebbe sempre una sua struttura autonoma e si affermò con una certa indipendenza rispetto ad altre istituzioni diocesane.

Un dato emerge chiaramente: il San Carlo deve molto della sua esistenza e del suo sviluppo a mons. Castelli che, in alcuni momenti, fu un sostegno fondamentale e un difensore strenuo del Ricreatorio. Il suo ruolo fu essenziale all'inizio del secolo, e soprattutto durante il fascismo, quando dimostrò fermezza e mediazione nel garantire un futuro alle associazioni cattoliche.

 

Capitolo quarto
I rapporti tra Ricreatorio e fascismo (1919-1931)

4.1. Il fascismo, la S. Sede e le associazioni giovanili

Nel 1919 l'opera educativa del San Carlo sembrava non avere soste. Le attività si moltiplicavano nonostante la scarsità di mezzi, dovuta alla prima guerra mondiale terminata da poco Gli adolescenti incontravano educatori carismatici pronti all'ascolto, nuovi interessi da coltivare, proposte culturali, un ritrovato rapporto con la fede e la chiesa. Tuttavia, nonostante il consenso crescente nei riguardi delle sue iniziative, il Ricreatorio non coinvolgeva tutti i giovani della città. Ampi strati della popolazione operaia rimanevano estranei agli orari e ai ritmi del San Carlo, come molta parte di quella studentesca, influenzata dalla propaganda socialista e massonica. Per non parlare della popolazione rurale, esclusa dalla pastorale giovanile e scarsamente considerata dalle istituzioni civili. Nella città di Fermo ogni proposta educativa aveva il suo spazio, a garanzia di una ragionevole convivenza tra realtà ideologicamente lontane. D'altra parte, se la chiesa aveva forzatamente lasciato la scuola, era legittimo e prevedibile che concentrasse le sue attività nell'ambito ecclesiale, preoccupata soprattutto di difendere i giovani dalle influenze negative della società civile. Fin dagli ultimi anni dell'Ottocento, la chiesa aveva combattuto contemporaneamente il socialismo e il liberalismo, ed era spesso riuscita, seppure a fatica, a respingere il laicismo, almeno negli ambienti non industrializzati. Nelle campagne come nei centri urbani, la gente continuava ad avere grande stima e fiducia nei confronti del clero. Del resto l'anticlericalismo italiano non assunse mai caratteri persecutori.

All'inizio degli anni venti le vicende dell'oratorio fermano risultano fortemente segnate dall'avvento e dall'affermazione del regime fascista. I rapporti difficili, come anche i compromessi più o meno stabili tra la gerarchia ecclesiastica e il nuovo corso della politica italiana, non mancavano di esprimersi anche a livello locale, dove le scelte, le distinzioni, le reticenze della gerarchia e del clero finivano per concretizzarsi nella prassi pastorale. I toni rassicuranti dello stesso Mussolini, che già nel 1921 sembrava prendere le distanze dalle premesse anticlericali del programma di S. Sepolcro, lasciando intravedere con chiarezza la possibilità di un incontro con il cattolicesimo e la chiesa, anche nel nome di una comune riserva critica antiliberale, finirono per legittimare le prospettive di una ricomposizione della società cristiana in Italia al di là della frattura risorgimentale. Certamente non sfuggivano alle gerarchie ecclesiastiche le contraddizioni interne al movimento fascista, o meglio la coesistenza di anime diverse che, da un lato si riconoscevano in un comune impulso rivoluzionario, e, dall'altro, erano disposte, almeno formalmente, a trattare con quelle istituzioni, come la chiesa cattolica, che rappresentavano la continuità e la tradizione secolare del paese.

In un contesto del genere, caratterizzato da spinte propulsive e dichiarazioni rassicuranti, le organizzazioni cattoliche si trovavano nella necessità di salvaguardare la propria identità, rinsaldando i legami con la gerarchia, e di tutelare gli spazi di autonomia operativa. E infatti, la prospettiva di una soluzione confessionale della Questione romana maturava contemporaneamente ad una prassi politica che tendeva alla realizzazione dello stato totalitario di massa. L'abolizione della libertà di stampa, lo scioglimento dei partiti d'opposizione, la costituzione del Tribunale speciale per la difesa dello stato con incarichi di polizia, la limitazione del diritto di riunirsi in assemblea, il controllo del dissenso erano espressioni di una politica repressiva che aveva come fine l'organizzazione di una dittatura che, diversamente dagli stati assolutistici, mirava alla formazione del consenso delle masse.

Per questo il fascismo considerò fondamentale il controllo delle giovani generazioni, attraverso la propaganda e specifiche organizzazioni. Il fascismo si occupò fin dagli inizi della formazione dei bambini e dei fanciulli, attraverso l'Opera Nazionale Balilla, divisa in "figli della lupa" (per bambini di 6-7 anni), "balilla" (fra gli 8-14) e gli "avanguardisti" (dai 15-18). Per chi proseguiva gli studi c'erano i Gruppi Universitari Fascisti, per gli altri la Gioventù Italiana del Littorio. Lo sport e l'educazione giovanile erano un mezzo per favorire lo sviluppo di una cultura fascista e inculcare la sottomissione e la fedeltà assoluta verso lo stato. "Qual è la formula fascista della vita nazionale? Tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato". L'educazione non era un fine, né per la chiesa né per il fascismo. Nessuna di queste due forze aveva un interesse in sé per lo studio, il divertimento e il tempo libero dei giovani; entrambe utilizzavano la sfera ludica e ricreativa per creare consenso e formare le coscienze, sia pure, ovviamente, in direzioni molto diverse. Così entrarono presto in conflitto.

I rapporti della chiesa con il regime possono essere schematizzati in quattro momenti: una prima fase di attesa fino al 1925; una seconda di collaborazione a distanza; una terza di appoggio dopo la crisi del 1931; una quarta fase di presa di distanza verso la fine del pontificato di Pio XI. Le prime tensioni di una certa entità si verificarono nelle sedi locali negli anni '26 e '27, ed avevano origine da contrasti politici. Spesse volte l'episcopato italiano era intervenuto per raccomandare l'apoliticità delle associazioni cattoliche e l'assoluta estraneità da qualsiasi forma pubblica di collaborazione politica, secondo gli orientamenti del magistero di Pio XI. Tuttavia le timorose esortazioni servirono a poco: le continue dichiarazioni di apoliticità non erano ritenute credibili, anche perché molti aderenti dell'ASCI e dell'ACI erano membri ufficiali del Partito Popolare. Alcuni prefetti, fin dal 1923, estesero all'ASCI il decreto legge del 14 gennaio, riguardante l'istituzione di una milizia volontaria per la sicurezza nazionale, che sanciva lo scioglimento di tutte le altre formazioni a carattere o inquadramento militare. In un momento così difficile, i capi scout cercarono la collaborazione e il sostegno del clero, sperando di ammorbidire l'opposizione del regime. Ma la risposta, a parte alcuni episodi, non fu incoraggiante: "I sacerdoti non hanno capito il movimento e non lo aiutano. Qualcuno ha detto che è "inutile", altri "dannoso" (…). L'aristocrazia, né l'intellettuale, né la democrazia vuol sapere di esploratori, mentre anche le buone famiglie vanno orgogliose del loro balilla, e non danno figli allo scoutismo. E' una società traviata dai liberali che non vive che delle apparenze esterne e non capisce niente. (…) Noi andiamo avanti. Che sia lo scoutismo quello che romperà il cerchio stringente della massoneria?". Lo sfogo della base andava di pari passo con il tentativo dei vertici dell'ASCI di coinvolgere in prima persona le strutture istituzionali della chiesa. Questa operazione subì un rallentamento decisivo perché, proprio nel momento in cui l'ASCI aveva un bisogno assoluto del sostegno della chiesa, moriva Mario di Carpegna, l'uomo voluto dal pontefice a capo dell'ASCI, eccellente mediatore tra i voleri della gerarchia e l'autonomia e la laicità della nuova associazione. Di fatto si verificò una scissione: gli assistenti ecclesiastici locali non mancarono di difendere i loro ragazzi, attirandosi spesso l'ostilità del fascismo e subendo numerosi episodi di violenza, mentre Pio XI si limitò ad una difesa molto vaga, senza offrire sostegni concreti a tutela delle scelte associative. Di fronte alle violenze fasciste, la logica era quella di evitare una valutazione negativa del regime in quanto tale, individuando solo in pochi elementi i responsabili di questi episodi, per non acuire gli attriti. La chiesa era impegnata in quel dialogo con lo stato che cominciava a dare i primi frutti; sostenere tutte le opere cattoliche avrebbe potuto incrinare, o forse rompere, ogni progetto concordatario. In una lettera del 24 gennaio 1927 al card. Gasparri, Pio XI spiegava che non era sua intenzione creare difficoltà al governo del paese o indebolirne il prestigio e la forza, ma semplicemente chiarire gli ambiti d'azione della chiesa:

"E per esaurire quant'è da noi questo tema dei giovani esploratori cattolici italiani, abbiamo prima rivolto la nostra attenzione ai reparti costretti a scioglimento (…) ed abbiamo considerato che anch'essi, i cari giovani, come il santo re David (…) dicano al Signore: "Se dobbiamo morire sia per mano vostra, o Signore, piuttosto che per mano degli uomini" e che, come ubbidendo alla voce del Vicario di Cristo benedicente si adunavano, così alla stessa voce ubbidendo, preferiscano di sciogliersi; e disciolti li dichiariamo alla data della presente lettera".

Pio XI mirava a scagionare e conservare intatta l'Azione Cattolica, di cui l'ASCI faceva parte. In effetti, il rifiorire della vita religiosa legata alla dimensione parrocchiale, resa più agevole dopo gli accordi del '29, portò ad un aumento della considerazione dell'ACI. Ma i contrasti non erano terminati. La giunta centrale di Azione Cattolica, il 20 aprile 1931, deliberò la costituzione di sezioni professionali, organizzazioni vicine al movimento sindacale che si occupavano della formazione professionale dei giovani e della loro tutela sul lavoro. Il fascismo temette la ricostituzione di un movimento sindacale ben organizzato, e con un'ordinanza della Pubblica sicurezza procedette alla chiusura di tutti i circoli facenti capo ai Consigli Superiori, ai Consigli Diocesani, alla Gioventù Cattolica, maschile e femminile, alla Federazione Universitaria Cattolica Italiana. Il papa rispose a questo ennesimo sopruso con un discorso, del 4 giugno 1931, rimasto celebre per la decisione e l'incisività:

"Si può domandarci la vita, -osserva, tra l'altro, il pontefice- non il silenzio, quando si fa scempio di quello che forma la predilezione notissima del nostro cuore e del Cuore di quel Dio del quale teniamo le veci. Scempio, diciamo, perché lasciato indisturbatamente prepararsi, dove non passa inosservato l'ultimo bollettino parrocchiale, prima da una campagna di stampa a base di invenzioni, di irriverenze e di calunnie, poi da una campagna di piazza e di strada fatta di irriverenze e di indecenze, di sopraffazioni e di violenze non rare volte cruente, ben spesso di molti contro pochi e sempre inermi figli nostri e figlie ancora".

I motivi del contrasto non riguardavano solo ingerenze politiche, ma vi era un apparato ideologico di sostegno al fascismo profondamente in contraddizione con il cristianesimo. Il governo non intendeva smentire la tendenza statolatrica, il culto del capo unico e supremo, i metodi violenti degli squadristi, una religiosità più vicina al paganesimo che al cristianesimo. Numerosi interventi e chiarimenti dell'Osservatore Romano permisero un ripensamento da parte del regime, e costituirono la base dell'enciclica Non abbiamo bisogno che il papa pubblicò in italiano per rendere più evidente la situazione a cui si riferiva e per denunciare il tentativo del governo di "monopolizzare interamente la gioventù, dalla primissima fanciullezza fino all'età adulta, a tutto esclusivo vantaggio di un partito e di un regime, sulla base di un'ideologia che dichiaratamente si risolve in una vera e propria statolatria pagana". Dopo una serie di trattative si giunse all'accordo per cui i circoli di AC, dietro alcune garanzie, poterono riaprire i battenti. Il governo comunicò che era stata revocata l'incompatibilità tra l'iscrizione al Partito Nazionale Fascista e quella all'Azione Cattolica.

4.2. L'allontanamento di don Biagio Cipriani

Anche a Fermo iniziarono ben presto i primi contrasti tra il governo fascista e la chiesa. L'episodio più grave avvenne il pomeriggio del 14 febbraio 1926. Un gruppo di giovani fascisti entrò al Ricreatorio cominciando a disturbare le prove di una manifestazione teatrale. Dopo le prime reazioni, aggredirono don Biagio Cipriani schiaffeggiandolo ed insultandolo. Lo scontro rese ufficiale un dissenso che, con altri toni e mezzi, andava avanti da parecchio tempo. Nessuno aveva però mai violato lo stato di diritto, intervenendo con violenza per ostacolare il lavoro del Ricreatorio. Le difficoltà erano state sempre di tipo burocratico, e la polemica si era limitata agli articoli di giornale. La situazione precipitò improvvisamente, costringendo don Biagio alla partenza. Il giorno stesso partì per Roma dove attese l'arrivo dell'arcivescovo, che era a Milano. La cronaca più attendibile di quei giorni è rappresentata dal diario personale di mons. Castelli. Il 16 febbraio 1926 annotava: "Trovo il telegramma che mi annunciava i danneggiamenti fatti la domenica al nostro Ricreatorio". Il 18 febbraio: "Sono a Milano (…) A sera parto per Roma". Il 19 febbraio: "Arrivo a Roma. Trovo don Biagio alla stazione ferroviaria. Andiamo da mons. Pizzardo il quale approva la nostra condotta e ci propone di recarci dall'Em.za Gasparri. Poté solo consigliare don Biagio, scriva una relazione del fatto da stamparsi per l'Osservatore Romano. A sera andiamo dall'Em.za Gasparri il quale ci promette una lettera di deplorazione, per ora da non pubblicarsi, in seguito si vedrà". La lettera di deplorazione rimane emblematica come esempio dell'atteggiamento della S. Sede verso il fascismo. L'episodio di violenza verso il San Carlo veniva condannato in sé, ma non in maniera pubblica, così da apparire come una censura verso i metodi del regime. Don Cipriani scrisse dopo qualche giorno l'articolo richiesto da mons. Gasparri, che comparve anche ne La voce delle Marche del 27 febbraio 1926:

"Riferiamo quanto con oggettività e imparzialità scrive l'Osservatore Romano sui fatti svoltisi di recente nel Ricreatorio S. Carlo. "Domenica, 14 febbraio, circa le ore 14.30, un gruppo di giovani, che si afferma fossero fascisti, irrompeva nel Salone Pio X del Ricreatorio S. Carlo di Fermo, di proprietà di mons. Arcivescovo Carlo Castelli, gridando e danneggiando notevolmente il locale e quanto in esso si trovava. Parecchi giovani del Ricreatorio erano sul palco a provare una commedia da rappresentarsi la sera stessa e tessuta sopra un episodio che, dopo i giorni angosciosi di Caporetto, avrebbe contribuito a preparare la vittoriosa riscossa di Vittorio Veneto. Gli invasori, invitati dal direttore del Ricreatorio, Can. D. Biagio Cipriani, ad indicare qualcuno di loro a cui dare spiegazioni, risposero con nuove grida e minacce, infrangendo vetri, poltroncine, lampadine, scenari, ecc.: una ventina di essi furono poi identificati dall'autorità sopraggiunta sul luogo. La causa dell'invasione deve ricercarsi nel diniego di concedere la sala Pio X agli Avanguardisti e Balilla per una loro recita pro Opera Nazionale Balilla, recita che, come si è poi saputo, doveva darsi anche con elementi femminili, ciò che non fu mai permesso nei nostri Circoli. La cittadinanza è rimasta dolorosamente impressionata per l'accaduto. Non possiamo che vivamente deplorare questa ingiustificata aggressione, tanto più che incidenti di tal genere non possono non destare legittime preoccupazioni. Attendiamo frattanto le ulteriori decisioni dell'Autorità competente".

La situazione di Cipriani rimase bloccata per alcuni mesi. Per motivi di opportunità era necessario che non riprendesse la guida del Ricreatorio. Il suo ritorno sarebbe stato considerato come una provocazione e avrebbe acuito le tensioni che il vescovo era impegnato a dissipare. Il clima pesante si era creato non tanto verso la persona di don Biagio, quanto verso l'istituzione che egli rappresentava e il ruolo che ricopriva. I problemi con il regime, infatti, non cessarono con la sua partenza, ma continuarono fino alla definitiva chiusura nel '31.

4.3. Il ruolo dell'arcivescovo Castelli

La posizione di mons. Castelli non era, agli occhi del regime, più comoda di quella di don Cipriani, anche se il vescovo fermano non perdeva occasione per calmare gli animi e manifestare la sua disponibilità. In occasione di uno degli attentati a Mussolini scriveva: "Alle 17.30, in duomo canto del Te Deum per lo scampato spavento di Mussolini. Il Te Deum fu indetto da me d'accordo col sig. Sottoprefetto. Ne diedi avviso al Sindaco, il quale mi rispose ringraziando. Il duomo era pieno. Prima del canto dissi due parole. Il nostro animo è informato da semplice sentimento di dolore, o meglio di esecrazione e di gioia. Di dolore per l'attentato a Mussolini etc. merita la riconoscenza e il plauso del mondo per quanto ha fatto e fa per la salvezza d'Italia e per la pace del mondo. Perché fu attentato alla sua vita? E dagli stranieri? Ma il nostro dolore si converte in gioia quando si riflette alla fortuna che ci è capitata. Che siate degni del capo del governo d'Italia. (…) Il discorso fece una buona impressione e smontò parecchie batterie puntate contro di noi; però soltanto di essere troppa verniciatura!!".

Si comincia ad intravedere l'atteggiamento politico di mons. Castelli favorevole alla distensione, per quanto possibile, con il regime, pur continuando l'indefessa attività di garanzia nei confronti del Ricreatorio. Una pagina del Diario particolarmente significativa è quella del 10 aprile, due giorni dopo il Te Deum, dove appare con evidenza quanto mons. Castelli avesse a cuore la questione del San Carlo oltre alla premura nei confronti del suo sfortunato direttore: "Alle 8.30 sono da mons. Pizzardo al quale espongo la situazione di don Biagio. Mgr. ne è impressionatissimo e pensa essere necessario che don Biagio si ritiri immediatamente da Fermo. Parlerà con mgr. Roveda, alle 16 mi troverò da lui. (…) Alle 16.30 sono da mgr. Pizzardo, molto affabile ma per decidere bisogna parli col S. Padre. Viene mgr. Cicognani dalla Concistoriale, gli spiego la situazione di don Biagio ed egli mi consiglia a parlare coll'Em.za De Lay. Alle 18.30 sono dall'Em.za, il quale mi dice di scrivere a Cipriani, si trovi martedì alla Concistoriale, viene l'Em.za Gasparri e tutto è sospeso. Alle 22 parto da Roma, stanco morto, ma con tante parole ho fatto un'opera buonissima".

La situazione di don Cipriani si normalizzò dopo pochi giorni; fu assunto presso la Congregazione Concistoriale e, dopo aver promesso che avrebbe rispolverato il suo inglese, gli fu affidato un ufficio che si occupava dei rapporti diplomatici con gli Stati Uniti.

La situazione a Fermo rimaneva tesa. Con la partenza di don Biagio il Ricreatorio subì un duro colpo; molte famiglie non mandarono più i loro figli per paura, molte altre li iscrissero alle organizzazioni fasciste. Il calo di frequenze iniziò a farsi sentire, oltre che per i problemi politici, anche per la mancanza di una personalità che fosse in grado di radunare i giovani. Il vescovo non trovò un assistente all'altezza del compito, e affidò la carica di direttore, nei quindici anni successivi, a quattro preti: don Luigi Petetti, don Emilio Del Bianco, don Giuseppe Roscioli, don Vincenzo Vagnoni.

Don Mario Scoponi continuò la sua opera come primo successore, ma le iniziative subirono un arresto così brusco che le attività si limitarono alla manutenzione degli stabili. Don Cipriani scriveva spesso da Roma per tenere aggiornato il vescovo sull'evolversi dei fatti. In una lettera del 13 aprile 1926 diceva:

"Eccellenza Reverendissima, secondo le istruzioni ricevute da V. E., questa mattina alle 11 sono andato da S. Em. il card. De Lay. In anticamera mi ha visto mons. Cicognani il quale mi ha trattato con molta deferenza e mi ha fatto…un piccolo esame linguistico. Sua Eminenza mi ha accolto con un benevolo sorriso e mi ha detto che ha intenzione di servirsi di me per un ufficio in Concistoriale. Però, siccome deve parlare col Santo Padre e non prima di venerdì prossimo, è necessario che torni da lui sabato venturo".

In un'altra lettera del 2 novembre dello stesso anno don Biagio ricorda con malinconia i momenti felici del Ricreatorio, ed il suo legame con Fermo e con i suoi giovani:

"Eccellenza reverendissima, compio il filiale dovere di farle gli auguri onomastici. Nel formularli verrebbero giù, più o meno, le solite espressioni e mi parrebbe di fare un compito di prima ginnasiale. Perciò vi rinuncio: V. Ecc., che ha l'occhio sicuro, vede nel mio viso, quest'anno lontano, la commozione dell'affetto e della gratitudine sincera. Nel periodo non breve il cui ho avuto la fortuna di esserle vicino, mi è stato possibile comprendere tutta la bontà del suo cuore paterno. Mi continui la sua benevolenza che è un conforto grande per me. Forse non mi crederà, Eccellenza, ma quando passa qualche ora triste, ( e chi non conosce le ore tristi) il ricordo di mio fratello e di lei mio buon padre mi commuove confortandomi. Questo povero don Biagio in fondo è stato salvato da lei, giovanissimo, dal suo modernismo sia pure ingenuo ed oggi, nell'età virile, dal suo… rivoluzionarismo… . Eccellenza come le debbo esser grato! Negli avvenimenti tristi veggo ognor più la bontà di Dio. Non ne sono degno! La mia vita è ormai regolarizzata: Ufficio, casa, Gioventù Cattolica. Non posso dire di essere nel mio mondo, ma non sento un vero e proprio disagio. Quest'anno mi darò all'insegnamento religioso in qualche Istituto o Collegio; sono in progetto quattro o cinque ore settimanali. La vita di ministero è però troppo scarsa e ne sento vivissimo il bisogno. Qui non si può toccar nulla senza urtare suscettibilità: tutto è sostenuto compassato, ogni passaggio di mosca è questione internazionale…, e chi ci si accosta?… ed ero abituato alle questioni inter puerili!!… Cerco di studiare un po', ma gli stimoli mancano. Da Fermo i giovani mi danno buone notizie; è una fortuna che sia rimasto Marcello Seta. Speriamo che si salvi qualche cosa: temo che sia prossima una battaglia a fondo contro le associazioni cattoliche. Il Signore difenderà le cose che son sue".

La crisi del San Carlo lo rese ancor più vulnerabile agli interessamenti delle organizzazioni fasciste. Il fascismo aveva creato movimenti giovanili in contrapposizione a quelli cattolici, ma non aveva gli spazi per radunare i giovani. Cominciò allora ad interessarsi al Ricreatorio per la sua posizione, vicina al centro, ma sufficientemente lontana dall'abitato, e per gli ampi spazi e giardini che aveva a disposizione. Il 7 novembre 1926 mons. Castelli scriveva: "Viene P. Bonaventura e mi dice che persona altolocata gli ha detto di avvertirmi che, richiestone, non abbia a rifiutarmi di cedere il Ricreatorio ai fascisti, perché ne verrebbero guai assai seri. Da tutto il complesso deduco che questa persona sia l'istesso sottoprefetto. Rispondo che ci avrei pensato. Mando a chiamare mgr. Vicario e don Nazzareno e mi dicono che non si tratterebbe di imposizione, ma di trovare un modus vivendi". Il padre Bonaventura era un religioso vicino al fascismo di cui spesso il regime si serviva per mantenere i contatti ufficiosi con il vescovo Castelli. Dunque "le batterie puntate contro di noi" non avevano smesso di creare difficoltà a mons. Castelli, ed anche la strategia di lusingare il regime in pubblico, continuando ad agire come prima in privato, non aveva dato i frutti sperati. Il fascismo continuò ad ostacolare in tutti i modi il Ricreatorio, soprattutto quando apparve chiaro che mons. Castelli non l'avrebbe mai venduto.

Mons. Castelli si trovò a fronteggiare le forti pressioni dei fascisti locali, che insistevano nel chiedere l'allontanamento dei preti che animavano il mondo giovanile. Inoltre, altre preoccupazioni giunsero dalle prefetture, che avevano una funzione di controllo ed agivano direttamente sul ministero dell'interno. Il prefetto di Ascoli Piceno Wenzel, il 23 novembre 1922, quattro anni prima della partenza forzata di don Cipriani, scrisse una lunga relazione indirizzata personalmente al Ministro dell'Interno, descrivendogli la preoccupante situazione riguardo l'atteggiamento antifascista di alcuni preti, e l'ostacolo rappresentato dall'arcivescovo Castelli che si ostinava a difenderli. La relazione mostra che gli episodi di violenza del '26 avevano una preistoria molto chiara, e che esisteva una particolare sollecitudine del regime nell'individuare e schedare tutti coloro che sarebbero potuti risultare di ostacolo al nuovo stato. I fratelli Cipriani, presentati come i più ostici e pericolosi collaboratori del vescovo e individui da sorvegliare, erano al centro dell'interesse del fascismo molto prima che gli scontri divenissero irreparabili. Dalle prefetture emergeva un immagine del clero poco docile alla collaborazione con il regime, spesso estraneo alle celebrazioni patriottiche, quasi disinteressato della situazione politica italiana, nostalgico del passato e troppo schierato a favore del Partito Popolare. Nella relazione si criticava aspramente la scarsa collaborazione che da molta parte del clero arrivava al fascismo. Tra i preti maggiormente attaccati vi erano don Giuseppe Cesetti di Amandola, definito sovversivo ed amico dei socialisti e dei comunisti, don Raffaele Moscoloni, parroco a Sant'Elpidio a Mare, don Caferri e don Scalabrone di Montedinove, ed infine i fratelli Cipriani di Fermo. Il nuovo prefetto di Ascoli, Edoardo Fassini Camossi, propose alla magistratura lo svolgimento di una formale inchiesta giudiziaria a carico di mons. Castelli, perché questi si era rifiutato di partecipare ad alcune delle iniziative patriottiche in Amandola, dopo che il parroco don Giuseppe Cesetti era stato costretto a lasciare la parrocchia. Il prefetto Camossi, nell'attaccare le posizioni del vescovo, cercò di dimostrare come fossero isolate nel panorama clericale e laicale della diocesi, e quanto fossero personali le idee del vescovo, per niente sostenute dai suoi collaboratori. In realtà accadde esattamente il contrario: la resistenza del vescovo fu possibile grazie al sostegno che ebbe da ampi strati della popolazione, alla collaborazione di molti sacerdoti, al contributo politico di molti protagonisti del Movimento Cattolico locale.

L'inchiesta fu effettivamente inoltrata ed arrivò fino al Ministro di Grazia e Giustizia Oviglio, ma si concluse senza conseguenze per mons. Castelli, perché si decise che sarebbe stato più opportuno procedere attraverso gli organi ecclesiastici competenti. Camossi, però, non si accontentò di far richiamare mons. Castelli dalle gerarchie vaticane, ma convocò i vescovi del Piceno per avere spiegazioni sulla presunta attività di riorganizzazione del Partito Popolare. Nella relazione sottolineava: "E' mio dovere far notare che il partito popolare, i vescovi ed i preti, non hanno smobilitato, anzi la loro azione è diventata subdola quanto mai e posso a ragione definirla menzognera. (…) Fermo e Montalto sono le roccaforti del partito popolare della provincia e sono saldamente tenute dai due vescovi, superlativamente intransigenti, che in ogni comune hanno nei preti innumerevoli tentacoli, veri agenti provocatori, intrufolati nelle pubbliche amministrazioni e capaci di poter assai nuocere".

Le tensioni sfociarono negli episodi del '26 ed ebbero una ripercussione molto lunga. Oltre un anno dopo la partenza di don Cipriani, il vescovo ricevette una lettera anonima che lo esortava a prendere analoghi provvedimenti per il fratello di don Biagio, Filippo Maria Cipriani. Il motivo determinante era l'inconciliabilità che esisteva tra i movimenti giovanili fascisti e quelli cattolici e, per la prima volta, si ammetteva chiaramente che la ragione del contrasto era la reciproca concorrenza nella formazione delle coscienze:

"Gentilissimo Monsignore, chi scrive a voi non si nasconde per viltà, ma solo per prudenza. Però è bene che voi conosciate ciò che avviene nella nostra città. E vi ripeto così le parole di chi è addentro alle schiere fasciste: oggi il fascismo è il regime italiano e chi non lo accetta deve andare ai confini. Qui a Fermo si è visto che le difficoltà di adesione, si sono trovate nelle società cattoliche e specialmente in quelle dirette dai Cipriani. Vuol dire che, se uno è partito, l'altro dovrà avere più giudizio!?… ! … ?!. Loro parlano a nome della bandiera papale, ma verrebbero creduti se avessero fatto solo i preti e non anche i politicanti. Se oggi essi non appariscono apertamente in politica è perché vige il fascismo, se continuassero a sventolare la bandiera popolare, continuerebbero come prima ad occuparsi di politica. Questa è l'opinione di molti. Vi farei sentire come parla la presidentessa del Fascio su tutte quelle che hanno per presidente don Filippo Cipriani. La stessa cosa si dice di coloro nel Ricreatorio hanno avuto per presidente don Biagino. Don Biagino con la cosa dei regolamenti non ci volle i fascisti nel Ricreatorio. Ma i regolamenti li può mettere avanti chi è stato sempre regolare, cioè chi non si è mai impicciato di politica. (…) Perché non si può stare in due società, una religiosa e una fascista? Come va che fra molti sacerdoti, cardinali, vescovi sono fascisti non come autorità religiose ma come cittadini? E di questo esistono prove. Qui in cinque anni che è sorto il fascio, le ostilità si sono avute sempre da quelle persone imbevute di popolarismo, da quella parte ciprianesca e compagnia".

Altre forti ostilità si verificarono nella notte tra il 29 e 30 gennaio 1927: alcuni ignoti scassinarono l'ingresso del Ricreatorio rubando parecchio materiale sportivo (i palloni, le palle di avorio del biliardo), trofei e riconoscimenti conquistati dalle varie sezioni della Victoria nei vari ambiti di attività: "Sorta l'istituzione del Ricreatorio fra le difficoltà, le diffidenze, le lotte qualche volta anche cruente -ricorda don Mario Scoponi- sostenuta solo dall'aiuto del Cielo e dalla tenacia di chi la crebbe, per vivere non poteva che lottare, lottare contro tutte le armi palesi ed occulte degli avversari: sarcasmo, denigrazione, violenza, devastazione. Quante notti insonni, quante lacrime silenziose! Quanta amarezza per causa di chi, uscito beneficato, vi ritornava nemico! La S. Sede con l'invito di assumere un incarico di fiducia presso la S. Congregazione Concistoriale provvidenzialmente impedì che l'incomprensione diventasse follia".

4.4. Un tentativo di riorganizzazione e la definitiva chiusura

I rapporti con le istituzioni ufficiali dello stato si fecero progressivamente più aspri; agli scontri di vertice, fecero seguito atti di teppismo e continue scaramucce. Era necessaria una revisione della gestione del Ricreatorio, che tenesse conto del clima fermano e rappresentasse l'ultimo efficace tentativo di autonomia e difesa della pastorale giovanile. Mons. Castelli ritenne opportuno chiedere un parere ai diretti responsabili della organizzazione. Un primo documento fu presentato all'attenzione del vescovo: si trattava di un programma molto articolato elaborato da un anonimo prete che dimostrava una discreta conoscenza del San Carlo.

La relazione era sostanzialmente critica nei confronti del Ricreatorio, come se l'autore percepisse quella distanza che cominciava a crearsi tra il San Carlo e la città di Fermo. Il fascismo aveva indebolito l'immagine della formazione cattolica e si cominciavano a sentire i primi effetti della contropropaganda. Dopo molti anni i circoli cattolici non erano più gli unici attrezzati all'accoglienza dei giovani e, per quanto il fascismo non avesse strutture paragonabili a quelle ecclesiastiche, cresceva la concorrenza educativa. Diverse testimonianze orali ricordano che molti genitori arrivarono a proibire ai loro figli la frequenza del San Carlo, per paura di molestie e ritorsioni, anche se continuavano ad apprezzare e condividere l'impostazione pedagogica che si intendeva impartire.

Di fronte a questa situazione, sempre più delicata, nell'incertezza di uscirne in modo indolore, si cercò di apportare alcune modifiche al Ricreatorio, nel complesso marginali, intervenendo sul San Carlo come su un meccanismo incrinato. Alle base delle proposte fatte vi era l'idea che il problema del consenso giovanile fosse di natura tecnica e che le istituzioni oratoriali si dovessero solo riorganizzare ed aggiornare per tornare agli splendori di un tempo. Era evidente la sotterranea convinzione che i problemi politici potessero essere superati risolvendo quelli organizzativi. I principali motivi di critica erano il rapporto troppo stretto tra il Circolo Silvio Pellico e la Gioventù Cattolica, la mancata strutturazione di quest'ultima, lo stato materiale in cui versavano gli stabili, l'istruzione religiosa non più incisiva come un tempo, il ruolo dell'assistente ecclesiastico, le forme ricreative da rinnovare e migliorare:

"Perché possa essere maggiormente preciso nell'esposizione richiamo la distinzione ben nota all'Ecc. V. tra Ricreatorio e Circolo di Gioventù Cattolica. Diversi nella loro origine, lo sono anche nel fine. Il primo ripete la sua origine a S. Filippo Neri, S. Carlo, il Beato Giovanni Bosco, ed ha per iscopo principale e diretto la formazione religiosa della gioventù; mira solo indirettamente, come conseguenza, alla formazione sociale del giovane, quale cittadino, cattolico militante, cioè cooperatore dell'apostolato gerarchico della Chiesa. La Gioventù Cattolica, invece, fondata dal conte Mario Fani e dal dott. Giovanni Acquaderni nel 29 luglio del 1867, ha per mira proprio quest'ultima qualifica, cioè di un giovane religioso, divenuto tale attraverso le file delle diverse associazioni parrocchiali, ovvero attraverso le file stesse del circolo della sezione Aspiranti, ne vuol fare un giovane cattolico militante cosciente, in ogni campo di azione, portando in ogni sfera lo spirito vivificante di Cristo".

Mons. Castelli sottopose la relazione pervenutagli al giudizio dello stesso don Cipriani, per avere un confronto autorevole che gli suggerisse con sincerità quelli che riteneva gli interventi più immediati da effettuare al Ricreatorio. Don Biagio rispose analizzando punto per punto le proposte dell'anonimo sacerdote, e ripropose quasi integralmente il modello al quale si era sempre ispirato. Don Cipriani, forse per la carica che esercitava a Roma, mostrò una conoscenza della realtà ecclesiale molto più ampia per quello che riguardava i rapporti con il regime. Egli diffidava di una eccessiva compenetrazione tra Ricreatorio e AC, probabilmente perché conservava un certo disincanto sulle prospettive delle associazioni cattoliche, e avrebbe voluto mantenere divisi i due ambiti per evitare che l'uno coinvolgesse l'altro:

"Ecc. Rev.ma, la sua bontà mi invita ad esprimere il mio parere sul promemoria gentilmente inviatomi, che riguarda l'ordinamento del Ricreatorio San Carlo. Ella mi chiama perciò a ricordi e passioni così vive ancora nell'anima mia; grazie, Eccellenza, grazie con tutto il cuore. Chi ha compilato il promemoria mi sembra abbia avuto gli occhi aperti e abbia ben capito le necessità dell'istituzione. Le mie osservazioni in proposito sono le seguenti: mi sembra verissimo quanto si espone nella prima pagina circa la distinzione tra Ricreatorio od Oratorio e Circolo di Gioventù Cattolica. Non vedo però che, dopo le esatte espressioni in proposito, si sia scesi alle relative applicazioni. Nel riordinamento, cioè, del Ricreatorio, proposto nelle pagine seguenti del promemoria, non si fa parola e molto meno si sistema l'organizzazione secondo i criteri affermati. Per conto mio non vedo opportuno che tutti i giovani, i quali frequentano il Ricreatorio, vi siano iscritti esclusivamente come soci della Gioventù Cattolica ossia del Circolo Silvio Pellico. (…) Temo anzi che l'attruppare sotto la bandiera di così alta missione centinaia fra ragazzi e giovanotti possa essere una difficoltà non lieve per ottenere poi un'accolta di giovani cattolici militanti così come vuole il S. Padre nella società della Gioventù Cattolica Italiana".

La natura politica dei dissensi fu evidente alcuni mesi dopo, quando la situazione trovò un epilogo negli episodi del '31. La partenza di don Cipriani, pur essendo stato un duro colpo per l'intera diocesi, non aveva ancora messo in ginocchio il Ricreatorio. Don Luigi Petetti aveva continuato il suo lavoro, come avveniva in tutte le altre sedi locali. Ma nel maggio del 1931 il Ricreatorio fu ufficialmente chiuso, per l'applicazione del decreto sui circoli cattolici che gestivano un'organizzazione concorrenziale ai movimenti giovanili fascisti. Oltre alla chiusura dei locali, fu decretato il sequestro dei mobili e dei documenti relativi alle iscrizioni al fine di schedare i frequentatori del San Carlo.

Don Mario Scoponi ricorda il giorno della chiusura con amaro sarcasmo: "Alle cinque del mattino, fui prelevato da un questurino, trattenuto tutta la mattina nel Commissariato, e poi condotto ad assistere al sequestro dei mobili del Circolo di AC, di tutte le bandiere, anche quelle sportive, che io stesso avevo fatto, di tutti i registri, delle fotografie, delle chiavi del Ricreatorio alla cui porta misero anche un grosso lucchetto, ed i sigilli. Fin verso le 14 durò quello strazio; poi mi rilasciarono. L'eroica impresa era terminata".

 

Conclusioni

Decretando la chiusura dei circoli cattolici, e del Ricreatorio San Carlo, il fascismo mostrava di temere il valore dell'educazione giovanile cattolica e, nello stesso tempo, di non tollerarla. La chiusura dei circoli, tra l'altro, non fu una mossa politica lungimirante, perché creò tensioni, oltre che con le associazioni giovanili cattoliche, anche con gli ambienti clericofascisti, facendo naufragare quel riconoscimento ufficiale del regime auspicato da alcuni settori della chiesa. Inoltre, la base elettorale fascista non era così radicale nei confronti delle istituzioni cattoliche, perché spesso aveva interesse ad usufruire della formazione religiosa e di quella civile, per cui molti genitori mandavano indifferentemente i loro figli all'Opera Nazionale Balilla ed agli oratori. Il fascismo, pretendendo il monopolio della formazione giovanile, superò agevolmente la concorrenza cattolica, ma mostrò di non conoscere fino in fondo la complessità delle esigenze che provenivano dalla base.

Gli oratori si ricostituirono in poco tempo in tutta Italia; questo processo avvenne tanto più rapidamente e con incisività quanto più repressiva era stata l'influenza fascista. Laddove erano stati maggiormente penalizzati, gli oratori si riorganizzarono con molto più entusiasmo che altrove, divenendo, in alcuni casi, veri e propri centri di formazione culturale e professionale. Molti si trasformarono in scuole, case editrici, agenzie di viaggi, compagnie assicurative, poiché le attività che erano collaterali ebbero un tale sviluppo al punto da diventare fondamentali ed esclusive.

Il San Carlo ebbe un'analoga esperienza, trovando il momento di massima espressione negli anni appena seguenti la seconda guerra mondiale, proprio quando i rigori del regime sembravano aver fiaccato definitivamente ogni possibilità di riapertura. Tutte le iniziative sportive, culturali, musicali e religiose che avevano avuto origine prima della guerra, continuarono moltiplicate anche dopo, grazie agli stimoli di don Giovanni Marozzi, direttore del San Carlo dal 1941 al 1949. L'oratorio acquistò sempre più credito da parte della popolazione fermana, e riuscì ad aggiornare i propri metodi pastorali tornando ad essere l'istituzione più innovativa nel fermano.

In molte diocesi d'Italia, soprattutto in Piemonte e Lombardia, a partire dalla seconda metà del XIX secolo fino ai nostri giorni, gli oratori hanno coordinato quasi interamente la pastorale giovanile. La longevità di questa istituzione è dovuta alle grandi personalità che l'hanno progettata, strutturata e diretta, e alle continue riforme di cui si è fatta promotrice. Molte esigenze pastorali avvertite nelle parrocchie trovarono tentativi di risposta negli oratori.

L'esempio fermano è indicativo della risposta offerta dalla chiesa locale alle esigenze delle nuove generazioni. Il Ricreatorio è stato spesso il banco di prova che ha sperimentato con successo un nuovo modo di presentare la validità del rapporto diretto con le persone, con i giovani, con il mondo del lavoro e dello svago, che ha visto realizzati progetti improponibili nelle parrocchie, perché troppo diverso era il contesto pastorale ordinario. Il motivo di interesse maggiore è stato il fatto che tutto ciò non avveniva più in modo clandestino, affidando le riforme liturgiche e catechetiche al coraggio di pochi parroci, ma avveniva con l'appoggio e la sincera promozione degli arcivescovi fermani, i primi interessati al buon andamento del San Carlo.

I conflitti con il regime fascista non incrinarono la validità di una proposta educativa e di un impegno ecclesiale, come le vicende del secondo dopoguerra potrebbero ampiamente documentare. Anche un oratorio di provincia, per così dire, era stato coinvolto da una tempesta collettiva che non era riuscita a minarne le fondamenta. Vicende non dissimili (e anche più drammatiche) furono vissute in ambienti cattolici tutt'altro che ossequienti al fascismo. L'esperienza fermana, tra conflitti e generosi progetti educativi, rimane comunque significativa nella storia di una chiesa locale impegnata a portare la luce del Vangelo nelle tensioni del proprio tempo.