Il Concilio Vaticano II, attribuendo un significativo
rilievo alle chiese locali, ha implicitamente invitato a studiarne le
tradizioni e le vicende, e a metterne in evidenza le identità
particolari.
Ma la storia di una comunità
locale, di una diocesi o anche di una parrocchia, può essere
adeguatamente analizzata e sinteticamente ricostruita solo interpretandola
nell'orizzonte della storia "generale". L'indagine scientifica, pertanto,
si articola attraverso uno stretto raccordo tra eventi e situazioni
proprie di una vicenda particolare e i dinamismi politico-religiosi
e pastorali di una collettività più ampia, soprattutto
nazionale.
Per quanto riguarda
la vita religiosa in Italia tra '800 e '900, la ricerca storica non
può non preoccuparsi di verificare le opzioni, gli orientamenti
e i propositi dell'azione pastorale di una chiesa locale in stretta
connessione con una prassi ecclesiale fortemente centralizzata e dipendente
dalle direttive romane e dai modelli da essa imposti.
In tal senso la
vicenda di un oratorio ancora attivo nella città di Fermo può
rappresentare un campo di indagine significativo. Dall'anno della fondazione
(1909) al 1931, data ben nota nella storia dei rapporti tra la chiesa
e il regime fascista, le scelte pastorali suggerite (e spesso imposte)
dal processo di secolarizzazione della società italiana, di cui
le giovani generazioni risentono in modo particolare, i conflitti con
lo stato totalitario, preoccupato di operare un radicale controllo delle
organizzazioni giovanili all'interno di una globale politica di nazionalizzazione
delle masse, e infine l'impegno personale di un arcivescovo, mons. Carlo
Castelli, costituiscono una sorta di "microstoria": una vicenda locale
che rispecchia tendenze generali che prendono forma attraverso opzioni
concrete, scelte talvolta pionieristiche e conflitti con le istituzioni
che segnano profondamente la storia di una comunità ecclesiale.
Se è vero,
come osserva Gabriele De Rosa, che "la validità di una storia
locale trova conferma nella nostra vita quotidiana"(1), l'indagine "microstorica",
a condizione di evitare ogni fervore celebrativo o localistico, può
consentire alla storia locale di offrire contributi sostanziali alle
ricerche più ampie e complessive, spesso limpide ed efficaci,
ma non sempre scrupolosamente attente alle particolarità e alle
sfumature che emergono dall'osservazione di esperienze apparentemente
marginali.
Seguendo una prospettiva
metodologica del genere, il presente lavoro, esaminando i primi venti
anni di attività del Ricreatorio San Carlo di Fermo, soprattutto
attraverso ricerche di archivio spesso non facili, intende ricostruire
una pagina di storia della vita ecclesiale della città episcopale
nella quale gli atteggiamenti, i progetti pastorali, i conflitti politico-religiosi
di un'epoca ormai trascorsa assumono connotati localmente determinanti.
Le tensioni e le dinamiche storiche che caratterizzano il cattolicesimo
italiano in una fase decisiva della propria storia, tra Cristianità
e scristianizzazione, risultano così presenti ed operanti anche
in un contesto religioso e civile per certi versi "periferico", dove
talvolta può sembrare che le trasformazioni ed i conflitti "generali"
siano percepiti in ritardo o in forme fortemente mediate.
La situazione politica, culturale e
religiosa della diocesi di Fermo nei primi anni del secolo: cenni introduttivi.
1.1. Il contesto
sociale marchigiano tra Ottocento e Novecento
Verso la metà
del secolo scorso arriva in Italia, con molto ritardo rispetto ai paesi
anglosassoni, il processo di industrializzazione. L'Inghilterra, ad
esempio, aveva conosciuto prima il nuovo assetto produttivo, perché
era solidamente ancorata alle sue istituzioni parlamentari e al sistema
liberale, mentre il resto d'Europa era dominato ancora dall'assolutismo
monarchico. Diversa era inoltre la composizione delle classi sociali,
espressione di un sistema economico già avviato all'industrializzazione.
La maggioranza dei paesi europei era impegnata a liberarsi delle zavorre
politiche più che a potenziare le proprie strutture commerciali.
Esiziali, per l'economia del continente, risultavano le politiche protezioniste
ereditate dall'Antico Regime. Il cambiamento è arrivato tardi,
quindi, ma proprio per questo più impetuoso.
La realtà
italiana di fine Ottocento si può individuare in tre grandi aree
di sviluppo: quella del Nord, più vicina al continente, dove
predomina l'industria capitalistica; quella centrale che ha una forma
intermedia e il Mezzogiorno con una struttura quasi esclusivamente artigianale.
Le Marche, con l'Umbria e l'Abruzzo, formano una zona geografica per
molti aspetti uniforme, con poche pianure e troppi monti, con scarse
risorse naturali e un'agricoltura mezzadrile piuttosto arretrata: alla
fine dell'Ottocento le Marche si presentano come una delle regioni più
povere del Regno . Alcuni dati confermano la gravità della situazione:
l'enorme aumento delle emigrazioni, l'altissima percentuale di analfabeti
e la preoccupante diffusione della pellagra. Ma, nonostante tutto, le
Marche sono una delle regioni dalle quali lo stato preleva la maggior
quota di imposte in rapporto alla ricchezza ed in cui spende meno per
i servizi e quasi nulla per i lavori pubblici .
La protesta
dei politici locali non tarda a farsi sentire: lo scopo è presentare
le Marche come una regione più vicina al Sud che al Nord del
paese, e quindi bisognosa di aiuti. Nei primi del Novecento la stampa
nazionale si occupa del caso delle regioni centrali, ma è un
interesse momentaneo, diretto solo all'influsso che il problema poteva
esercitare sulla stabilità del governo. Un colpo gravissimo alle
attività artigianali era venuto dalla politica protezionista
che, per anni, aveva rallentato e inibito i processi commerciali. In
effetti il protezionismo si rivelò costoso quanto inutile: l'industria,
nonostante le alte imposte sui prodotti esteri, stentava a decollare,
e l'agricoltura sembrava non avvantaggiarsi né dalle chiusure
doganali né dai miglioramenti tecnici. I primi ad avanzare dubbi
sulla politica del governo furono i ceti mercantili. Gradualmente si
cominciarono ad affermare timide e pacate strategie liberali, fondate
sul commercio e sul mercato. Per incrementare il commercio bisognava
puntare sull'aumento della produzione agricola e scambiarla con merci
estere al minimo prezzo: piuttosto che tentare di impiantare manifatture
la cui materia prima si sarebbe dovuta importare, era consigliabile
potenziare quelle la cui materia prima si sarebbe potuta trovare in
loco. Per questo motivo la promozione dell'agricoltura è stata
la condizione che ha permesso lo sviluppo che conosciamo nell'area marchigiana:
non ci sarebbe stato commercio se la borghesia agraria locale, rinunciando
a dedicarsi alle manifatture, non avesse permesso e favorito la crescita
della produzione agraria. Le prime rilevazioni statistiche del dopoguerra
mostrano che, all'inizio degli anni Cinquanta, le Marche erano una regione
relativamente povera, con un'economia tutt'altro che dinamica, basata
quasi esclusivamente sull'agricoltura, che occupava il 60 per cento
degli attivi contro una media nazionale del 42 per cento .
La conduzione
a mezzadria è, praticamente, l'unica forma diffusa e interessa
gran parte della superficie coltivata, con pesanti riflessi sulla struttura
insediativa e sulla dimensione delle famiglie. Possiamo dire, quindi,
che, nella prima metà del nostro secolo, le Marche non hanno
conosciuto una significativa industrializzazione . Tuttavia, i fattori
che hanno permesso l'esplosione industriale postbellica sono da ricercarsi
nell'evoluzione sociale dell'Ottocento. Per esempio, l'elaborazione
manifatturiera di materie prime di origine agricola, quali bozzoli,
lana, canapa, pelli, paglia, saggina e farine, portava ad attività
destinate ad un precoce tramonto, di solito determinato dalle innovazioni
tecniche come le materie prime sintetiche che sostituiscono quelle naturali,
oppure dalla concorrenza di produttori nazionali ed esteri più
competitivi. Inoltre notiamo la centralizzazione di laboratori artigianali,
quali ciabattini, falegnami, sarti. Un terzo motivo di sviluppo sono
le cosiddette industrie "coloniali". Il termine "coloniale" si riferisce
agli investimenti provenienti dall'estero e orientati verso le Marche
dall'esigenza di controllare monopolisticamente il mercato di approvvigionamento
di materie prime, oppure per collocare prodotti caratterizzati da un
forte vincolo di localizzazione a causa degli elevati costi specifici
di trasporto.
In sintesi,
la situazione economica marchigiana era tutt'altro che florida: nelle
campagne dominava il sistema mezzadrile che poco si conciliava con uno
sviluppo dell'agricoltura in senso commerciale e industriale. Nelle
città era diffusa una manifattura a carattere familiare, spesso
anche di grande qualità, ma che non aveva strumenti adeguati
per trasformarsi in produzione in serie. La grande e antica tradizione
manifatturiera, che affondava le radici nel Medioevo, si era trasformata
nelle corporazioni artigiane e nel lavoro a domicilio di moltissime
famiglie, impegnate soprattutto nella filatura e nella tessitura della
lana. Questo modello cominciò ad andare in crisi quando ci si
accorse che una produzione di più ampio raggio avrebbe permesso
l'abbattimento dei costi e una maggiore diffusione dei prodotti. Le
prime industrie del Nord d'Italia decisero di ampliare le loro dimensioni
e di assumere manodopera stabile a basso costo, per diventare fornitrici
di filati alle grandi industrie tessili inglesi e francesi . Questo
significava assumere persone estranee al nucleo familiare, ma che non
costassero molto di più di quello che sarebbe costato il lavoro
della prole.
La forza-lavoro
proveniva prevalentemente dalle campagne e consisteva in ragazzi giovanissimi
che, abbandonata la scuola, cercavano lavoro e fortuna nelle città.
Da un'indagine di Giuseppe Sacchi, pioniere dell'educazione infantile
e dell'assistenza sociale, emerge che, nel 1840, in Lombardia, un ragazzo
su tre non frequentava la scuola elementare, mentre uno su cinque trascorreva
dodici ore al giorno nelle officine e negli opifici.
1.2.
Aspetti della vita religiosa nella diocesi di Fermo
Per verificare
quale fosse la sensibilità nei confronti di questi problemi nella
diocesi di Fermo, si può rileggere il testo del Sinodo diocesano
dell'anno 1900, promosso da mons. Roberto Papiri . Il testo permette
di comprendere come fosse avvertita l'esigenza di alcune istituzioni-guida
che favorissero un migliore tenore di vita delle persone attraverso
iniziative caritative, e l'assistenza ricreativa dei giovani:
"Sunt et alterius
generis societates vel consociationes quas temporum quibus vivimus conditio
nedum summopere utiles, sed et necessarias reddit, vel ad conservandam
in populo fidem, pietatem, religionem, vel ad inopiam miserorum sublevandam.
Tales sunt societates catholicae mutui auxilii (società di mutuo
soccorso) praesertim inter operarios, quos oportet ab insidiis sectae
massonicae valide tutari, uti alias diximus; rustica aeraria (casse
rurali) ad usurariorum aviditatem compescendam et inopiam ruricolarum
sublevandam; conventus animis per dies festos relaxandis (ricreatori
festivi); sodalitates iuvenum vel artificum vel studiis deditorum (artigianelli,
sezioni giovani); opera vel infirmis adiuvandis vel viduis et pupillis
defendendis (assistenza dgli infermi, tutela della vedova e del pupillo);
aliaeque quamplurimae institutiones, quae vel directe animorum culturae
prospiciunt (opere catechistiche, oratori festivi ecc.); vel inopiae
sublevandae immediate consulunt (cucine economiche, dormitori economici,
segretariato del popolo ecc.). Huiusmodi societates catholicas, ab Apostolica
Sede saepius commendatas ac veluti imperatas, RR. Parochi sedulo promovere,
fovere et adiuvare omnino debent. Non ea profecto Nobis mens est ut
in singulis locis omnes hae societates instituantur; id enim impossibile
prorsus foret; sed habita ratione locorum et personarum, una vel altera
seligatur quam indigentiae tum spirituales tum temporales populi veluti
exigere videantur".
Il modo con
cui il sinodo affrontava alcune delle necessità dei fedeli mostra
quale tipo di percezione si avesse della realtà ecclesiale. In
altre parole, dobbiamo chiederci in base a quali criteri il sinodo stabilisse
le priorità pastorali, soprattutto la funzione protettiva della
chiesa, intesa a conservare la fede e la pietà nel popolo, a
preservare gli operai dall'influsso della massoneria e ad attrezzare
luoghi ritenuti idonei per la formazione e la catechesi giovanile. Due
elementi emergono chiaramente. Il primo è la visione del laicato
come oggetto di cura pastorale e non soggetto ecclesiale. Il clero ha
il dovere di preservare e di educare i laici, proprio in forza di una
diversa appartenenza alla chiesa, e quindi di un diverso ruolo. Il secondo
è il tentativo, spesso riuscito, di costruire un duplicato del
mondo civile; la chiesa, societas perfecta, deve avere al suo interno
tutte le strutture che le permettano di non dipendere da istituzioni
laiche e di offrire alle persone un'assistenza di qualsiasi tipo. Anche
l'educazione era pensata con questi criteri e obiettivi. Va notato che
il sinodo non riteneva opportuno che in ogni singola parrocchia ci fosse
un punto di aggregazione, sia per la mancanza di forze, sia per la mancanza
di ragazzi, perché sarebbero state poche le parrocchie con un
numero sufficiente di giovani da permettere l'apertura di un oratorio.
Invece erano auspicati luoghi interparrocchiali, più facili da
gestire e in grado di offrire un servizio migliore. L'idea di un oratorio
a Fermo era dunque nell'aria, anche se mons. Papiri non ebbe tempo di
mettere in opera i progetti del sinodo.
Durante gli
ultimi anni del suo episcopato, la Santa Sede inviò un visitatore
apostolico a Fermo per costatare la situazione della diocesi e individuare
le caratteristiche dell'eventuale successore. Nella sua accurata relazione,
il visitatore, mons. Giovan Battista Nasalli Rocca (1872-1951), descriveva
dettagliatamente gli aspetti più problematici del clero e del
laicato. Ne viene fuori un quadro d'insieme molto significativo:
"(...) L'Arcidiocesi
di Fermo conta 184.784 abitanti, 147 parrocchie con 378 preti e 19 istituti
religiosi maschili, moltissime le comunità religiose femminili,
moltissime e troppe le confraternite, numerose le istituzioni di azione
cattolica e le pie associazioni. (...) Raro è il paese della
diocesi di Fermo che possa dirsi immune dalla peste del socialismo.
Vi fanno parte per lo più giovani spensierati, molti dei quali
neppure sanno in che consista. Manca l'organizzazione e raramente si
riuniscono, tranne in Montefalcone, che è stato sempre covo di
repubblicani, anarchici e socialisti. Il socialismo arreca danni incalcolabili
alle anime, perché diffonde ovunque l'indifferentismo religioso
colle sue inevitabili conseguenze. Va data lode al Clero, che in genere
parlando, lavora con zelo e abnegazione per paralizzare la nefasta propaganda
socialista, con istituzioni sociali cattoliche di vario genere. (...)
Il clero è piuttosto abbondante: ciò è causa di
qualche malcontento, specialmente per la pluralità di offici
conferiti a poche persone. Del resto, questo clero è docile,
morigerato e pio. Non manca qualche eccezione, che però non può
far meraviglia in un ceto così numeroso. Così non manca
qualche modernità, ma scandali veri e propri, indisciplinatezza
e offesa ai dettami espressi dalla S. Sede, (se si eccettua qualche
articolo comparso sul giornaletto sovraccennato "La Libertà",
articolo irriverente e stolto) non ve ne sono e tutto il Clero nella
sua quasi totalità deplorò quegli scritti".
Fermo era la
diocesi più popolosa ed estesa delle Marche; aveva un numero
molto consistente di preti e una gloriosa tradizione di alti prelati.
Molti vescovi fermani avevano prima esercitato il loro ministero in
diocesi più piccole; spesso arrivavano già consacrati
e con una certa esperienza alle spalle, segno della rilevanza riconosciuta
da Roma alla sede fermana. D'altro canto, fino al 1895, Fermo era stata
sede cardinalizia con personalità eminenti come Filippo De Angelis
(1842-1877) e Amilcare Malagola (1877-1895).
La relazione
descrive poi episodi meno rilevanti storicamente, come i litigi tra
i parroci le cui parrocchie confinavano, e i disaccordi per la cattiva
gestione dei benefici parrocchiali. Un lungo capitolo è dedicato
invece al seminario:
"(...) E primieramente,
quanto ai superiori, grande benefattore materiale del seminario è
il ricco Rettore Bazzani, ma non ha contatto alcuno coi giovani Seminaristi,
i quali sono in tutto e per tutto sotto la sorveglianza e vista educativa
dei prefetti, sottoprefetti e decani, de' quali almeno uno o due sono
sacerdoti, gli altri tutti Chierici in sacris, o meno. Ma purtroppo
il Vice-Rettore ha un po' più di vicinanza cogli alunni, ma egli
stesso confessa che non ha attitudine al suo ufficio e lo adempie per
ubbidienza. (...) L'ampio locale non è sufficiente pei numerosi
alunni e si è dovuto rimediare con due collegi succursali, Fontevecchia
e Benvenga. Gli alunni interni sono 130 nel Seminario, 50 nei due succursali,
più 20 esterni. Il detto locale poi non è adatto né
per igiene né per la disciplina: esso invece dovrebbe servire
per un bel Seminario teologico, trasportando altrove le sue scuole filosofiche
e ginnasiali".
Il Seminario
era una delle strutture da sistemare, sia materialmente, sia riguardo
alla formazione. E' significativo che, pur con una grande abbondanza
di preti, nessuno dei responsabili si sentisse pienamente adatto al
ministero educativo; né il rettore, né il vicerettore
erano entusiasti del loro compito. Questa lacuna sarebbe emersa più
tardi con il diffondersi del murrismo.
Fermo si delinea
come una città di studi: il "Montani", il "Sacconi", il "Fontevecchia",
il "Benvenga" erano collegi adibiti all'ospitalità dei numerosi
studenti che provenivano da fuori. Mons. Nasalli Rocca informa che la
situazione del seminario era talmente inadeguata che molti seminaristi
erano alloggiati provvisoriamente in questi collegi. Nel seminario,
il visitatore trovava i primi latenti segni di modernismo e osserva
che le autorità avevano assunto un atteggiamento di denuncia
dei punti teoretici fondamentali, ma avevano anche sopravvalutato il
problema. La paura del modernismo impediva la lucidità nel giudizio
e la carità nella correzione. I risultati non sono stati certo
soddisfacenti perché il tentativo di omologazione culturale,
spesso, si risolveva nel suo contrario:
"Qui sul termine
dirò non esservi dubbio che qui, come altrove, c'è un
certo amore per le nuove idee di filosofia, di teologia e di critica
ecc., un tempo sorsero libri e periodici e qualcuno mi disse essersi
lette le opere di Gorki, di Tolstoi, di Rosetta e di altri non meno
pericolosi, benché meno apertamente avversi alla Religione e
Fede Cattolica; ora di nascosto corrono senza dubbio, non quelli messi
all'indice ma altri. Nei superiori in generale v'è assolutamente
contrarietà all'indirizzo delle idee così dette moderniste,
e qualche volta, si vede modernismo un po' dappertutto, ma non si combattono
forse nel modo più atto a ritrarne i giovani, i quali non persuasione,
ma piuttosto timore induce a tacere e simulare. Converrebbe quindi usare
la via appunto della persuasione piuttosto che quella della nuda e pura
imposizione, trattandosi di giovani, che veramente, sia per pietà
che per moralità non danno motivi a lamenti, anzi qualcuno fra
i più caldi (questo me lo affermavano apertamente gli stessi
superiori e lo costato io dall'ascolto minuzioso fatto) sono e per moralità
e per pietà migliori degli altri. E senza fare torto ad alcuno,
ha più giovato Mons. Artesi, che ha lasciato esprimere ai giovani
le loro idee e le ha combattute, che non altri, che hanno voluto imporre
di non tenerle, senza volerle né sentire né combattere.
Anche una certa aria di indipendenza, che è uno dei mali grandi
che corre sotto il nome cosiffatto di modernismo e forse ne è
la essenza, è spirata qua entro queste mura, ma sono d'animo
che se un bravo conferenziere o padre spirituale perseverante, con solido
ragionamento, con nozione, dottrina, pazienza e pietà sapesse
ben instillare nei giovani i grandi principi della ubbidienza e della
umanità necessarie all'Ecclesiastico, senza esagerazioni, intemperanze
ed aggressioni, riuscirebbe a togliere questo che è certo un
male. Del quale assegna il visitatore varie cause, e tra esse le esagerazioni
di coloro che combattono le idee nuove men buone combattendo anche le
innocenti: così per es. (narro un aneddoto umoristico) non si
voleva un cappello che a Roma, specialmente nell'estate, portano tutti
anche i prelati rispettabilissimi (e lo scrivente stesso poco mancava
non lo portasse a Fermo) perché cappello democratico! Ciò
mi è necessario dire con tutta franchezza, perché credo
che il torto sia da ambe le parti".
Questa ammissione
parziale del visitatore ci inserisce nel complesso discorso sul modernismo
politico. In una situazione di sostanziale stasi della diocesi di Fermo
si cominciavano a delineare fermenti destinati a diventare sempre più
considerevoli per la chiesa e per la società. Lo sviluppo e l'affermazione
della corrente democratico-cristiana all'interno dell'Opera dei Congressi
aveva prodotto una particolare animazione anche nelle Marche, dove Romolo
Murri, originario della diocesi di Fermo, godeva di molte simpatie ed
aveva stetti rapporti con sacerdoti e laici. La soppressione dell'Opera
dei congressi, nel 1904, aveva provocato una profonda impressione: la
liquidazione della corrente democratico cristiana e la delicata posizione
in cui Murri si era venuto a trovare suscitano tensioni e perplessità
tra il clero fermano e nello stesso seminario. Mons. Papiri incontrò
forti difficoltà a ridimensionare e a controllare la situazione
negli ultimi mesi del suo episcopato.
Nel 1906 la
Santa Sede trasferì a Fermo il vescovo di Bobbio, mons. Carlo
Castelli, come successore di mons. Papiri . La prima spinosa questione
che mons. Castelli si trovò ad affrontare fu la gestione del
caso Murri, di cui fu il mediatore tra il Pontefice e lo stesso Murri.
Il vescovo, da un lato, era preoccupato di trasmettere fedelmente le
iniziative del Santo Padre, dall'altro, era animato dalla sincera volontà
di recuperare il giovane prete. Dal ricchissimo carteggio tra mons.
Castelli e Murri emerge sempre il tono pacato dell'arcivescovo, la sua
fermezza, ma anche la sua disponibilità al dialogo, anche quando
i punti di frattura superarono per numero e importanza quelli di accordo.
Non è
semplice stabilire fino a che punto Castelli esprimesse una posizione
personale e fino a che punto fosse un esecutore di Pio X. La storiografia,
quasi unanimemente, ritiene che tutta la questione fu trattata e gestita
direttamente da Pio X, ma la documentazione prova che non tutti gli
ordini del pontefice furono eseguiti passivamente.
Uno degli effetti del murrismo
fu certamente l'irrigidimento della formazione dei chierici, tanto che
nel Seminario Arcivescovile di Fermo furono allontanati sei diaconi
con l'accusa di modernismo . Di questi, tre chiesero la riduzione allo
stato laicale, tre furono riammessi al presbiterato dietro la presentazione
del loro parroco. La repressione serviva a scongiurare il pericolo di
diffusione delle idee moderniste, anche perché i giovani univano
erroneamente la richiesta della democrazia politica con quella di una
maggiore libertà dalla gerarchia. Essi confondevano facilmente
due piani che invece Murri aveva sempre tenuto ben distinti. Sicuramente
uno dei motivi per cui la condanna al modernismo assunse toni persecutori
era il timore che la critica alle autorità civili fosse accompagnata
da una polemica di natura ecclesiale. Quando Murri fu eletto deputato
nel collegio di Montegiorgio, una quindicina di seminaristi gli scrissero
una lettera di congratulazioni, commettendo l'errore di firmarla. La
lettera arrivò alla redazione di un giornale anticlericale, La
voce dei liberi, che pubblicò un articolo in cui si derideva
la divergenza tra i provvedimenti ufficiali della curia nei confronti
di Murri e il consenso dei seminaristi. L'articolo faceva espressamente
riferimento ad alcune lettere di solidarietà a Murri firmate
da un gruppo di chierici. I superiori del seminario passarono dal sospetto
all'azione. Querelarono La voce dei liberi per diffamazione, ma, ritenendo
verosimile l'esistenza della lettera, aprirono un'inchiesta e tutti
i seminaristi furono chiamati a discolparsi .
Mons. Castelli non era pregiudizialmente
contrario alle novità. Non possiamo neppure dire che fosse un
conservatore nel senso odierno del termine. Egli dimostrò uno
spirito aperto ed intelligente, ad esempio quando fece suonare la marcia
reale in seminario tra lo scandalo dei seminaristi e dei professori,
oppure quando al Ricreatorio San Carlo benedisse per prima la bandiera
tricolore e tenne un'omelia sul duplice ideale di chiesa e patria .
Castelli aveva una formazione ambrosiana, caratterizzata da una vita
di pietà, un certo interesse per lo studio e un carattere attento
e inflessibile. Non a caso aveva portato con sé il vicario generale,
mons. Nogara, per iniziare meglio il lavoro che lo aspettava. Aveva
una preoccupazione molto sentita per il sociale; la sua esperienza lo
portava ad interessarsi dei disagi economici dell'industria manifatturiera
e dell'artigianato, ma anche dei ceti più indigenti. Si racconta
che spesso, di notte, facesse visita a qualche famiglia delle più
povere della città, per portare qualche vestito e qualcosa da
mangiare. Le sue iniziative pastorali miravano a coprire tutti gli aspetti
del vivere umano, perché tutte le occasioni erano propizie per
evangelizzare. In questa ottica vide la situazione giovanile come una
delle più difficili da gestire. Per la quaresima del 1909 scrisse
una lettera pastorale sull'educazione giovanile rivolta al clero ed
ai genitori, ai quali si rivolgeva in questi termini:
"La gioventù è sempre
stata cosa difficilissima, e ciò oltreché per la sua impulsività,
incostanza e debolezza, per la sua prepotente inclinazione al godere:
difficilissima quindi l'arte di ben educare i giovani, e troppo frequenti
i traviamenti da deplorarsi in essi. (
) Ai dì nostri si
dà grande importanza e si cerca con ogni sforzo senza badare
né a sacrifici né a spese, il bene materiale dei figliuoli:
la sanità del corpo, lo sviluppo delle forze fisiche, l'istruzione,
la buona posizione sociale, una agiatezza più che discreta; questo
è ciò che si cerca, che si vuole ad ogni costo; la coltura
dello spirito, la formazione delle sante abitudini, Dio, la sua legge,
la sua dottrina, i doveri che a Lui ne stringono, quando non siano sfacciatamente
disconosciuti e disprezzati, sono dalla grande maggioranza dei moderni
genitori riguardati o conosciuti con tale e tanta leggerezza e superficialità,
che forse è peggiore e arreca più danni che non la trascuranza
stessa" .
L'atteggiamento verso gli adolescenti
era paternalistico e protettivo, dettato anche dal fascino preoccupante
che le associazioni massoniche e socialiste esercitavano sui più
giovani. Era necessario avvicinare i giovani prima di altri e indirizzarli
sul retto cammino della fede: restava da pensare il modo in cui attuare
tutto questo. Un altro scritto di mons. Castelli ricordava come spesso
l'atteggiamento del cristiano di fronte al mondo dovesse essere di resistenza
e di opposizione. Il tesoro maggiore che un cristiano ha e che è
chiamato a difendere è la fede e la vita spirituale. Quando si
perdono queste due dimensioni interiori si è destinati a brancolare
nel buio dell'errore, lontano dalla verità e da Dio: "Non che
le opere degli infedeli siano peccati, come ebbero a dire alcuni eretici,
giustamente condannati dalla Chiesa; no, questo è errore: le
loro buone opere sono sempre lodevoli e moralmente buone: non saranno
però mai buone di quella bontà soprannaturale che possa
renderle accette a Dio, in ordine alla vita eterna" . Il nucleo dell'omiletica
di mons. Castelli verteva su un'immagine sostanzialmente pessimistica
della società laica. Si ha l'impressione che per l'arcivescovo
non potesse esistere una vera comunità di persone a prescindere
dalla fede cristiana. I titoli delle prime lettere pastorali, Salviamo
la gioventù e Salvate la fede, sono indicativi di un atteggiamento
preoccupato e polemico nei confronti del mondo moderno. La fede era
legata alla sacramentalità del battesimo, alla dottrina tomista
del carattere; era quasi assente la prospettiva di un cammino personale
e comunitario di conversione. L'atteggiamento religioso e l'agire cristiano
delle persone erano dati per presupposti. Per questo la fede andava
più che altro conservata o salvata, ma quasi mai costruita.
1.3.
Il nuovo modello degli Oratori
La grave situazione sociale e religiosa
dell'Italia del tempo ebbe conseguenze inevitabili: il disagio delle
categorie più svantaggiate si trasformò presto in microcriminalità,
con un incremento dei furti e del piccolo brigantaggio. La città
di Fermo non era preparata ad affrontare questi problemi; si era sempre
limitata a reprimerli demandando alla chiesa la formazione dei giovani
e la loro assistenza. Un fenomeno comune a tutta l'Italia, fin dai primi
anni dell'Ottocento, fu la nascita di numerosi alberghi dei poveri e
opere pie, quest'ultime sotto il patrocinio delle diocesi o di istituti
religiosi. La chiesa non aveva mai elaborato una pastorale giovanile
vera e propria. Si tratta di un fatto facilmente spiegabile: nella società
rurale la situazione giovanile non era un problema rilevante, dato il
precoce inserimento dei bambini nella vita lavorativa . Il contatto
con i giovani era inteso a partire dal modello tridentino del catechismo
e della messa: gli elementi essenziali per la vita di un giovane erano
la sacramentalizzazione e la catechesi, come si evince dalla progressiva
precocità dell'accostamento ai sacramenti dell'iniziazione cristiana,
fissato da Pio X intorno ai sei anni .
Ma la gran parte dei fanciulli
rimaneva estranea ad una proposta di questo tipo. Gli oratori, almeno
nel modello borromaico-ambrosiano, erano già attivi da tre secoli,
ma non rappresentavano niente di più significativo di quello
che offrisse la parrocchia. Si hanno delle notizie sui primi oratori
alla fine del '400: erano concepiti come luoghi di formazione spirituale
e di culto, con l'intenzione precisa di essere di aiuto ai più
giovani, di preservarli dai "pericoli della strada" ed educarli nelle
nozioni fondamentali della fede. Per quanto queste iniziative assumessero
spesso un carattere aristocratico, magari collegandosi con collegi per
lo studio gestiti da religiosi, vi erano in esse, almeno potenzialmente,
gli elementi del futuro oratorio di massa. Gradualmente lo sviluppo
si è definito su due grandi binari: il primo è quello
che si prefiggeva la formazione integrale del giovane, il modello filippino,
raccolto intorno alla proposta dello studio, della morale alfonsiana
e delle devozioni. Il secondo è quello salesiano che si rivolgeva
prevalentemente alle situazioni di marginalità . Ma il nucleo
dei contenuti era lo stesso. L'intuizione salesiana prende inizio proprio
dalla constatazione della fine di un modello dottrinale, legato esclusivamente
alle parrocchie, poiché tanti ragazzi arrivavano in città
dai paesi limitrofi e rischiavano di non integrarsi in un tessuto parrocchiale
precostituito . Inoltre erano superati anche il linguaggio e il metodo.
Una sera don Bosco, attraversando la chiesa per andare in sacrestia
durante l'omelia, notò alcuni ragazzi che sonnecchiavano seduti
ai piedi di un altare laterale. Sottovoce chiese perché stessero
dormendo. I ragazzi, interpellati amichevolmente, risposero: "Non capiamo
niente della predica, quel prete non parla per noi!" .
Questo episodio descrive emblematicamente
le barriere che un certo tipo di giovani incontrava nella parrocchia:
il loro modo di pensare e di vivere non permetteva il contatto con nessun
altro alveo che quello dell'amicizia accogliente. Lo stesso don Bosco
si rendeva perfettamente conto della necessità della parrocchia
e, allo stesso tempo, della sua insufficienza. La pastorale di attesa
passiva del giovane in chiesa o in sacrestia per il catechismo non era
più incisiva. Occorreva diventare parrocchia dei senza parrocchia,
"la parrocchia dei ragazzi abbandonati" . Pensò allora ad una
iniziativa che potesse coniugare catechesi e formazione umana, non legata
ad una pievania ed ai suoi confini territoriali, ma alla sua persona
e a quanti l'avrebbero aiutato. Il progetto educativo salesiano non
derivava da uno studio teorico delle possibilità pedagogiche,
ma dall'esigenza di coinvolgere i giovani che non avevano altre alternative,
"i vagabondi, quelli che girano per le vie e per le piazze, esseri derelitti
che tosto o tardi diventano il flagello della società e finiscono
con l'andare a popolare le prigioni" . Una caratteristica essenziale
degli oratori salesiani era lo spazio dedicato al gioco e alla ricreazione,
caratteristica che divenne denominatore comune di ogni associazione
o circolo giovanile. L'aspetto ludico della pastorale dei giovani, come
abbiamo detto, non esisteva: lo stesso don Bosco non intendeva il gioco
come un momento fine a se stesso, avulso dalle altre attività.
Era piuttosto parte dell'educazione globale della persona che doveva
confrontarsi con la realtà in tutte le sue forme. Di qui il privilegio
dato alla ginnastica e alle escursioni in montagna, rispetto alle carte
o ai giochi di squadra competitivi come il calcio.
Gli oratori erano intesi come alternativa
al mondo civile: nei più dotati vi era di tutto. Si poteva imparare
a leggere e scrivere, oppure un lavoro, vi si potevano depositare i
propri risparmi; era possibile divertirsi, oppure ricevere i sacramenti
ed essere istruiti in materia di fede. L'oratorio era, insomma, un mondo
autosufficiente. Dapprima lo scopo di tutto ciò era quello di
supplenza nei confronti dello Stato, poi divenne la contrapposizione
con il nascente stato liberale e laico. La chiesa tendeva a ritagliarsi
propri spazi perché si vedeva privata di quella funzione educativa
che aveva gestito per secoli. Basti pensare al problema della scuola:
solo nel 1910 lo stato assunse direttamente l'onere di creare scuole
elementari, perché prima era stato affidato ai comuni. Ma in
realtà questo non comportò immediatamente una scolarizzazione
effettiva. Fino agli anni venti, e sempre con alte percentuali di assenza,
la scuola fu considerata ancora un lusso. La chiesa continuò
a mantenere scuole in maniera capillare per molti anni, perché
lo stato, teoricamente, voleva essere garante dell'educazione, ma in
pratica non aveva le strutture per farlo.
Le origini del Ricreatorio San Carlo
2.1. Fondazione
del Ricreatorio a Fermo
Il giorno dell'ingresso in diocesi,
mons. Castelli rimase colpito dall'ampio parco di via Trevisani e subito
chiese al sindaco, che gli sedeva vicino, a chi appartenesse1. Il fondo
era stato di proprietà dei marchesi che intitolavano l'omonima
via, poi era passato alla proprietà municipale. Il vescovo pensò
fin dal primo momento di farne un oratorio sul modello di quelli lombardi,
e scelse un giovane prete per affidargliene la direzione. Il sacerdote
si chiamava don Biagio Cipriani, aveva appena ventitré anni quando
fu ordinato e venticinque quando fu mandato a Milano per vedere e studiare
una realtà tanto nuova ed efficace, quanto sconosciuta nelle
nostre zone: avrebbe dovuto imparare il metodo educativo praticato negli
oratori e riportarlo in diocesi.
Il giardino scelto da Castelli
era quanto di meglio si potesse avere a disposizione: uno spazio molto
ampio, ricco di piante e di aiuole, ma privo di strutture. Quando il
vescovo vi fece erigere la prima costruzione adattata a teatrino, i
gruppi massonici e anticlericali la chiamarono "lo stallone"2. Era un
salone polivalente, dedicato a Pio X, che sarebbe dovuto servire alla
catechesi giovanile, a conferenze, spettacoli e manifestazioni sportive.
Il salone fu inaugurato il 24 luglio 1909, dopo gli ultimi ritocchi.
Appena don Cipriani ritornò dalla Lombardia, comprensibilmente
entusiasta e pieno di idee, il vescovo gli affiancò altri due
giovani preti, don Massimiliano Massimiliani, più tardi vescovo
di Modigliana (1931-1959), e don Federico Barbatelli3. Mentre questi
ultimi due avevano incarichi riguardo la formazione culturale e spirituale
dei giovani, Cipriani era responsabile generale del Ricreatorio e, in
poco tempo, divenne con la sua personalità il punto di riferimento
di tutti. Stava accadendo quello che anche don Bosco aveva anticipato:
il successo dell'istituzione oratoriale non era dovuto a chissà
quali alchimie pastorali, ma alla figura carismatica degli assistenti
ecclesiastici. Il consenso crescente intorno al Ricreatorio era determinato
non solo dall'efficacia delle attività proposte, ma soprattutto
dal rapporto personale che cominciava ad instaurarsi tra i ragazzi e
i loro formatori.
2.2.
Il primo responsabile: don Biagio Cipriani
Don Biagio Cipriani era nato a
San Pietro in Lama (Lecce) il 16 luglio 1884 da Aurelio e Maria Massetti,
entrambi marchigiani. Il padre, maceratese, si era trasferito in Puglia
in quanto impiegato statale. Rientrando nelle Marche, la famiglia si
stabilì a Fermo, città natale della madre. Entrato giovanissimo
in seminario, don Biagio seguì un iter di formazione sicuramente
convincente: i suoi compagni di camerata erano, Lino Lauri, Federico
Barbatelli, Luigi Petetti ed il fratello Filippo, più tardi vescovo
di Città di Castello (1934-1956). Di questi, Barbatelli e Petetti
furono amici e collaboratori anche al Ricreatorio5. Terminati gli studi,
Cipriani fu ordinato sacerdote da mons. Castelli il 25 maggio 1907.
Per il fatto di essere di buone capacità, l'arcivescovo gli affidò
l'insegnamento appena diventato prete, in un periodo molto delicato
per la diocesi. Questo non lo rese immune dal subire accuse di modernismo.
Per lui si scomodò addirittura lo stesso Pio X, che, in una lettera
del 30 luglio 1907 a mons. Castelli, manifestava la forte preoccupazione
di purificare gli ambienti del seminario da ogni influenza modernista,
in modo tale che tornasse ad essere un luogo educativo e rassicurante
per i candidati al sacerdozio. Per essere certi di una seria verifica
della disciplina, Pio X esortava a rimuovere dall'insegnamento e "da
qualsiasi altra ingerenza" alcuni professori, tra cui don Cipriani:
"Illustrissimo e Reverendissimo
Monsignore, la risposta alla lettera dei Rev. Vescovi della Regione
Picena fu già spedita al Sig. Arcivescovo di Camerino, che si
farà premura di darne copia a tutti i suoi confratelli. Il rev.
don Murri, che trova pure tempo di corrispondere coi giornali e di scrivere
sulla cultura, non l'ha trovato ancora per rispondere alla sua lettera.
Ella però né lo solleciti, né prenda alcun provvedimento;
lo lasci in pace quasi non appartenesse alla sua Diocesi. Prendo parte
vivissima ai suoi timori e alla sua angoscia pei giovani che, finito
l'anno scolastico, vanno alle loro famiglie, perché purtroppo
è micidiale anche l'aria che si respira adesso nel mondo. Per
prevenire poi qualunque pericolo per l'anno venturo, quando rientreranno
nel Seminario, Le raccomando di deputare alla disciplina quei prefetti
che Le diano la più ampia garanzia di pietà, non solo,
ma di fede rettissima immune affatto anche dal sospetto di certe idee
tanto dannose. Anzi per il bene del Seminario e della Diocesi troverei
necessario che Ella licenziasse dall'insegnamento e da qualunque altra
ingerenza nell'Istituto i preti don Silvio Basili, don Biagio Cipriani
e don Gustavo Corradi. Che se tale provvedimento Le dovesse recare qualche
dispiacere, dica pure che Ella non fa che eseguire gli ordini del Santo
Padre"6.
La severa richiesta di Pio X non
è facilmente comprensibile; comunque non trovò applicazione
da parte del vescovo Castelli, almeno per quello che riguarda Cipriani,
che non solo non fu rimosso dall'insegnamento, ma ricevette l'incarico
di responsabile della pastorale giovanile della città. Inoltre,
quando mons. Nogara fu nominato rettore del Pontificio Seminario di
Chieti, intorno agli anni venti, mons. Castelli gli propose addirittura
di ricoprire il ruolo che era stato del suo vicario nel Seminario di
Fermo. Non conosciamo la ragione di queste decisioni: il vescovo non
tenne conto delle esortazioni del pontefice, decise di affidare il Ricreatorio
a Cipriani e più tardi gli chiese di occuparsi del seminario7.
Se è difficile intuire i motivi delle iniziative del vescovo
Castelli, lo è ancor di più capire il motivo per cui il
pontefice avrebbe voluto estromettere don Cipriani dall'insegnamento.
Infatti l'esperienza di Buonaiuti o di Murri era stata comprensibilmente
diversa, perché, avendo avuto una rilevanza nazionale su giornali
e riviste, erano costretti a difendersi per le loro idee, o anche solo
per qualche formulazione equivoca. Di Don Biagio Cipriani non si poteva
dire niente di tutto questo. Non solo non era un teologo, ma era completamente
sconosciuto alla diocesi, essendo stato ordinato da pochi mesi. Le accuse
riguardavano dunque il periodo di formazione in seminario, dove sarà
stato facile confondere gli entusiasmi giovanili con la sintonia per
le idee moderniste. Ovviamente, come abbiamo già accennato, il
seminario di Fermo fu oggetto di una sorveglianza speciale, perché
era considerato una fucina di seguaci di Murri, e per le diverse lettere
che gli manifestavano, in forma anonima, piena solidarietà. Di
lettere simili ne furono recapitate molte, alcune indirizzate a lui
personalmente, altre dirette agli organi che dovevano giudicare il suo
caso.
Don Biagio Cipriani non era un
intellettuale a tempo pieno; era, piuttosto, un uomo impegnato nell'azione
e non avrebbe avuto il tempo per approfondire una disciplina in particolare.
Non era dunque un teologo, né un filosofo dal discutibile impianto
teoretico, non un letterato né uno storico dal metodo critico.
Nel seminario insegnava lettere e francese; le sue letture preferite
erano Pascal e il "proibito" Rosmini8. Ma se un motivo ci deve essere
per le critiche che Pio X gli rivolse, questo certamente non va cercato
nel ruolo di docente, ma in quello più influente di educatore:
è in questo campo che si è esercitata di più l'opera
di Cipriani. Il centro della sua attività non è stato
tanto innovare una prassi che, per molti aspetti, era superata, ma vivere
tutta l'azione della chiesa in maniera nuova, cioè, prima di
tutto, facendo in modo che fosse compresa da tutti. Questo a cominciare
dalla liturgia, di cui egli era un appassionato: fu uno dei primi a
leggere in italiano alcune parti della Messa, a voltarsi con l'altare
verso l'assemblea, ad indossare un'ampia casula, a parlare di partecipazione
attiva all'Eucaristia e di mistero Pasquale, ad avere un rinnovato interesse
per la Scrittura9. Alessandro Bellucci nota polemicamente che tutte
queste riforme ebbero termine alla sua partenza dal Ricreatorio: probabilmente
l'allusione era indirizzata a don Mario Scoponi, che aveva preso le
redini del San Carlo dopo il 192610.
Un'anticipazione molto seria fu
l'introduzione dell'educazione sessuale. Per avviare un discorso il
più possibile rigoroso, sia scientificamente sia moralmente,
Cipriani si servì dei rari libri esistenti, tutti scritti in
inglese e in francese. Dobbiamo richiamare il fatto che ci troviamo
ad inizio del secolo, quando non solo la morale non si era occupata
molto di questi temi, ma nemmeno la medicina aveva dato un contributo
rilevante. Tutto questo veniva coniugato con attività ricreative,
alcune nuove in assoluto, come il calcio, la ginnastica, l'atletica,
il teatro e il cinema muto. Questo era il punto di partenza: creare
un interesse contagioso intorno al Ricreatorio per avvicinare i più
giovani e coinvolgerli in una proposta cristiana. Non bisogna sottovalutare
che gli utenti del San Carlo erano quasi esclusivamente studenti. Molti
provenivano da lontano per frequentare il celebre Istituto Tecnico Montani
che, all'epoca, aveva molti professori affiliati alla massoneria11.
Per tanti giovani il San Carlo era l'unica possibilità di un
rapporto con la chiesa, e anche per questo fu fatto oggetto di continue
derisioni. Il ruolo dei formatori non era quindi facile: si doveva costruire
un dialogo, spesso senza poter contare su un presupposto religioso.
Da questo primo approccio, diverso rispetto al passato e senz'altro
più affascinante, si passava solitamente ad una conversazione
informale e generica con tutti. Lo studio di don Cipriani era sempre
gremito di ragazzi con i quali discuteva dei loro problemi, confrontandoli
con il catechismo della chiesa cattolica. Da questa straordinaria esperienza
con i giovanissimi maturò la convinzione che, spesso, il linguaggio
ecclesiastico non era comprensibile a tutti. Così decise di scrivere
Il catechismo del ragazzo12, pubblicato molto più tardi, ma il
cui impianto risale a questi anni. Il Catechismo era un volumetto sintetico
ed aggiornato del catechismo di Pio X e della teologia tridentina, dove
Cipriani sintetizzava la sua esperienza pastorale e catechetica. Il
testo non conteneva novità teologiche fondamentali, ma, attraverso
la forma classica della domanda e della risposta, riusciva ad essere
accessibile a tutti.
Il metodo delle domande e delle
risposte brevi, da memorizzare, era stato ampiamente sperimentato dal
Catechismo di Pio X. Nel piccolo compendio di Cipriani era però
diversa la distribuzione della materia da affrontare, disposta secondo
tre nuclei fondamentali: inizio della vita di Grazia, la vita di Grazia,
la legge della vita di Grazia. La precedenza andava al cammino di sacramentalizzazione
che ogni persona era chiamata a vivere. L'iniziazione cristiana introduceva
in un piano di vita soprannaturale: la vita di Grazia richiedeva una
serie di obblighi e adempimenti. Per questo era messa alla fine la parte
morale del catechismo. Evidente è la fisionomia del giovane destinatario
del testo: un giovane inserito in un ambiente cristiano e chiamato,
in età adolescenziale, a maturare una fede salda e, per certi
versi, in contrapposizione con lo spirito dei tempi. Forte è
l'esortazione alla comunione frequente e al culto eucaristico: "Dopo
la Santa Comunione, quanto tempo resta in noi Gesù Cristo? Finché
durano le sacre specie, e perciò bisogna restare in preghiera
il tempo necessario. Perché l'Eucaristia è il più
grande dei sacramenti? Perché negli altri sacramenti si riceve
la Grazia, mentre nell'Eucarestia si riceve l'autore della Grazia. Perché
si conserva nelle chiese la SS. Eucarestia? Perché Gesù
vuole essere sempre in mezzo a noi e ricevere le nostre preghiere"13.
La confessione e la comunione erano prescritte almeno una volta all'anno,
ma il catechismo non mancava di ricordare quanto fosse utile una frequenza
maggiore: "Che cosa ci ordina il terzo precetto della Chiesa? Ci ordina
di confessarci almeno una volta l'anno e comunicarci almeno a Pasqua.
Perché nel terzo precetto c'è la parola "almeno"? Perché
l'obbligo è una volta l'anno, ma la Chiesa desidera che ci confessiamo
e comunichiamo spesso. E' utile confessarsi spesso? E' utilissimo confessarsi
spesso per purificarsi e per crescere nella virtù. E' cosa buona
ed utile la Comunione frequente? E' cosa ottima ed utilissima la Comunione
frequente, anche ogni giorno, purché sia fatta bene. Qual è
il giorno più bello della vita? Il giorno della prima Comunione"14.
Troviamo anche qualche rapido riferimento all'idea di stato confessionale
che il giovane era tenuto a costruire. La società civile deve
essere intimamente legata a quella ecclesiale perché da questa
compenetrazione deriva il bene dei cittadini: "Le leggi civili debbono
sempre andare d'accordo con le leggi di Dio e della Chiesa? Sì,
le leggi civili debbono sempre andare d'accordo con le leggi di Dio
e della Chiesa , per il bene dei cittadini. Quali sono le autorità
che il quarto comandamento ci ordina di onorare? Le autorità
ecclesiastiche cioè il Papa, i Vescovi, i Sacerdoti e le autorità
civili. Perché si dev'essere soggetti alle autorità civili?
Perché ogni autorità viene da Dio. Ma perché bisogna
sempre obbedire? Perché chi obbedisce fa la volontà di
Dio"15. Abbiamo già detto che il giovane che si intendeva raggiungere
e formare attraverso il catechismo doveva già essere inserito
in una realtà catechistica ed avere i rudimenti della fede. La
catechesi aveva un impianto "autoritario": non prevedeva dialogo o discussione
delle tesi. La finalità era l'inserimento pieno nella vita cristiana
attraverso i sacramenti, visti come momenti di passaggio, e una corretta
condotta morale. Inoltre il Catechismo intendeva creare il senso di
determinati doveri cristiani secondo una spiritualità di tipo
liguoriano: erano i doveri del "proprio stato di vita", primo fra tutti
il rispetto della gerarchia, dato che il giovane avrebbe fatto parte
della chiesa discente, la pratica delle virtù, il compimento
degli obblighi del matrimonio e, specialmente, l'educazione cristiana
della prole. Tutte le azioni del cristiano dovevano avere il mistero
eucaristico al centro della vita; questo spiega la grande devozione
per il culto eucaristico che arrivava a sostituire ogni altra pratica
religiosa.
Il Catechismo non era un trattato
sistematico di morale o di teologia; non conteneva niente che non fosse
stato già ampiamente detto e scritto. Non vi erano novità
rilevanti rispetto alla pietà tradizionale ed alla spiritualità
laicale dell'epoca. Fu presentato e pubblicato con tutti gli onori,
anche perché libri simili non erano molti diffusi, e quindi,
nel suo genere, il testo era un'opera rara.
Il Ricreatorio iniziò la
sua attività con questo tipo di spiritualità e totalmente
inserito nei problemi che abbiamo accennato. I primi anni di lavoro
furono un successo: anche i più scettici si dovettero convincere
che l'oratorio era un serio strumento pastorale.
2.3.
La prima guerra mondiale
La prima guerra mondiale interruppe
i progetti e gli entusiasmi: il San Carlo fu trasformato in un ospedale
della Croce Rossa e gli assistenti, don Biagio Cipriani e don Mario
Scoponi, furono chiamati in guerra. Ma non tutto si fermò. Un
laico, il maestro Luigi Trasatti, si occupò, durante tutto il
periodo della guerra, dei ragazzi che non erano stati chiamati al fronte,
ed avevano ormai trovato nel Ricreatorio un punto di riferimento. Per
impedire che perdessero il contatto con la scuola, li radunò
in una ex palestra di via Perpenti organizzando ripetizioni scolastiche,
catechismo ed attività ricreative. Su questa attività
nascosta sappiamo molto poco, anche se è stata di un importanza
straordinaria perché ha inaugurato l'impegno dei fermani per
il loro Ricreatorio, ed ha permesso la sussistenza della struttura16.
Questo permise di riaprire il Ricreatorio il 25 gennaio 1920 senza dover
ricominciare daccapo. Nel primo dopoguerra tutte le associazioni trovano
un consolidamento e uno sviluppo imprevisti. Era notevole la richiesta
e l'esigenza, soprattutto da parte dei più giovani, di ritornare
alle attività ordinarie, quasi di esorcizzare la guerra attraverso
la volontà di ricostruzione. Niente di tutto quello che era stato
fatto prima del 1915 andò perduto, il numero di soci triplicò,
passando da 90 a 250, le attività si moltiplicarono e il San
Carlo iniziò a farsi conoscere anche al di fuori delle Marche17.
Le attività dal 1909 al 1926:
tra festa e altare
3.1. La polisportiva
Victoria
Mons. Castelli,
affidando la direzione del Ricreatorio a don Biagio Cipriani, scriveva:
"Bisogna chiamarvi i giovani con l'attrattiva dello sport: il resto
verrà"1. Le iniziative sportive nella città di Fermo erano
preesistenti al Ricreatorio, nel senso che in città erano già
diffusi molti degli sport moderni. Tuttavia non esistevano forme associative.
Spesso anche nelle grandi città mancavano luoghi idonei dove
radunare i ragazzi. Don Bosco ricordava la sua insistenza per ottenere
in affitto case rurali, appartenenti a ricchi proprietari terrieri,
e le frequenti proteste dei vicini infastiditi dal chiasso. Alle origini
il San Carlo incontrò le stesse difficoltà, pur rappresentando
una delle istituzioni maggiormente gradite ed apprezzate da tutta la
cittadinanza fermana. Nel Ricreatorio furono accolte e organizzate le
tradizionali attività ricreative già esistenti, e ne furono
avviate di nuove. L'obiettivo principale era la realizzazione di un'associazione
che rappresentasse un'occasione di incontro tra vita pastorale e attività
sportiva. Con questo scopo, il 4 dicembre 1909, fu fondata la società
sportiva Victoria, grazie all'interesse e alla collaborazione di alcuni
laici: Pasquale Cisbani, Carlo Petracci, Lot Bernardi, Luigi Fagioli2.
La Victoria comprendeva quattro
discipline: ginnastica, ciclismo, escursionismo e calcio. La ginnastica
e l'atletica leggera furono le prime attività a diffondersi e
svilupparsi, perché ritenute più sane e formative rispetto
ad altri sport. Nei primi mesi del 1910 si tennero allenamenti assidui
nell'attrezzistica, nella corsa veloce, in quella campestre, nel mezzofondo,
nelle gare di salto, nel lancio del peso e del giavellotto. Ginnastica
e atletica leggera, in un primo momento, erano fuse tra loro; successivamente
la ginnastica si sviluppò coinvolgendo un notevole numero di
atleti, mentre l'atletica perse importanza, poiché fu fondata
una squadra di atletica cittadina che attirò le forze migliori.
Organizzatori e promotori della sezione di ginnastica furono i professori
Giandomenico De Santis, Attilio Poncini, Pietro Baldassarri. L'opera
di quest'ultimo è stata particolarmente importante non solo per
gli straordinari riconoscimenti ricevuti dallo sport nazionale, ma soprattutto
perché Baldassarri ha guidato la Victoria tra le due guerre,
traghettandola quasi indenne dal fascismo agli anni Cinquanta. Fu infatti
nel secondo dopoguerra che la Victoria ottenne i maggiori successi,
anche perché negli anni Trenta le attività si erano limitate
a concorsi interni senza valore. Nel 1910 si concretizzarono quelle
proposte che univano la gioventù fermana e ponevano il Ricreatorio
tra le istituzioni più vivaci della diocesi. Il 3 luglio il primo
anno associativo si chiuse con una grande manifestazione pubblica, a
cui furono invitate le personalità cittadine e le famiglie dei
ragazzi. Si trattava del primo impatto con la cittadinanza fermana e
per questo la cerimonia fu preparata con molta cura.
Mons. Castelli, visibilmente soddisfatto
per i primi frutti del San Carlo, decise, dopo quella occasione, di
estendere la Victoria all'escursionismo. Essendo egli stesso un appassionato,
organizzò corsi per i principianti e provvide a fornire al Ricreatorio
tutte le attrezzature necessarie. Il vescovo partecipò ad una
delle prime uscite insieme ad un centinaio di ragazzi, il 14 settembre
1910. Le mete delle escursioni erano solitamente i vicini monti Appennini,
in particolare il Vettore, il monte Sibilla, l'Argentella, Pizzo Borghese,
il massiccio del Gran Sasso. Nell'escursionistica maturarono molti giovani
che parteciparono alla prima guerra mondiale come alpini distinguendosi
per coraggio ed eroismo. Mons. Castelli aveva conosciuto la montagna
da giovane, grazie a mons. Achille Ratti, di cui era nota questa passione,
ed era ben felice di trasmettere a sua volta ai giovani del Ricreatorio
questa esperienza. In effetti, l'escursionistica fu una delle iniziative
maggiormente promosse dall'arcivescovo, tanto che la riconoscenza dei
giovani fermani portò a cambiare nome al salone Pio X, che divenne
salone San Carlo, in onore del grande vescovo milanese e del suo omonimo
fermano. L'escursionismo fu sempre una caratteristica dell'aggregazione
giovanile, da un lato perché l'idea del cammino si avvicinava
all'idea della vita che si voleva suggerire, dall'altro perché
la vicina montagna offriva, nel periodo estivo, un modo per uscire dal
solito ambiente quotidiano.
Sempre nel 1910 fu costituita la
sezione ciclistica, che non ebbe grande seguito. Svolse la sua attività
solo fino al 1922, sempre in ambito locale, e vide la partecipazione
di un nucleo ristretto di persone. Si ha notizia di due gare, disputate
a S. Elpidio e Ascoli Piceno, in cui la Victoria ciclistica ottenne
i primi posti.
Un'altra attività che non
riscontrò un immediato successo fu la Pallacanestro. Il primo
torneo cittadino fu organizzato a Fermo nel maggio del 1925; la Victoria
si classificò al secondo posto. Ma tutto si spense senza esito.
La pallacanestro continuò ad essere praticata solo in forma amichevole
ed interna al Ricreatorio. Il primo campionato ufficiale di prima divisione
fu disputato solo nel 1946, grazie all'impegno di Mario Stortini, quando
la fine della guerra permise la ripresa delle attività. Nel 1914
si costituì anche una sezione di scherma che però ebbe
vita breve. Durante l'estate si svolgevano attività balneari,
tra cui un originale contributo venne dal canottaggio, praticato "al
mare con imbarcazione propria perché i giovani, nel periodo balneare,
non frequentassero ambienti ben controllati"3. Più tardi cominciò
la pratica del tennis, che trovò origine al Ricreatorio ma fu
praticato per pochi anni, fino ad essere integrato nel circolo cittadino.
La scherma e il tennis erano considerati sport elitari e, dopo aver
inizialmente affascinato i giovani di Fermo, non trovarono più
molto consenso. Dopo la seconda guerra mondiale tornarono ad essere
praticate tutte quelle attività che avevano avuto i natali in
questo periodo.
Lo sport che ha riscosso più
successo al San Carlo è stato il calcio, non tanto perché
ha avuto molti riconoscimenti e vittorie, quanto per l'interesse e l'entusiasmo
che ha suscitato in tutti i fermani. Il motivo del successo va attribuito
alla novità assoluta e alla semplicità del gioco. Lo stesso
don Biagio descrive il modo rocambolesco con cui si era procurato il
primo pallone da calcio arrivato nel fermano: lo aveva acquistato per
dodici lire da un gesuita inglese residente a Firenze, padre Strikland.
Il pallone proveniva direttamente dall'Inghilterra, ma nessuno conosceva
le regole del gioco ancora sconosciuto; basti pensare che la società
sportiva Fermana Calcio sarebbe stata fondata solo nel 1920. Per muovere
i primi passi si presero informazioni da un'edizione francese del Regolamento.
Il pallone durò cinque mesi; alla fine, tutti erano diventati
esperti ed appassionati. Le prime partite furono giocate contro altri
istituti ed associazioni. Una, diventata celebre, risale al 4 giugno
1911 contro la Robur di Macerata. Dal 1923 la Società Calcistica
della Victoria si affiliò alla F.I.G.C. e incontrò spesso
anche la Fermana e squadre di paesi limitrofi.
3.2.
Le iniziative culturali
La prima
significativa iniziativa culturale del Ricreatorio San Carlo è
rappresentata dalla società teatrale Nova Juventus, voluta personalmente
da Cipriani, che aveva notato la passione e l'interesse dei giovani
per il cinema, che stava muovendo i primi passi. Il 30 gennaio 1910
il salone Pio X ospitò la prima rappresentazione, consistente
in due commedie distinte: Pane e coscienza e la Camera incantata. Subito
dopo furono proposti Scacco matto, Piccolo Parigino, Guglielmo, I Folletti,
Vietato fumare, il Pittore disperato, il Fotografo in imbarazzo, Britannico,
nonno Ercole, Memorie del Diavolo. Questi primi lavori, semplici e lineari
nello svolgimento, facevano parte del tipico repertorio oratoriale ed
avevano prevalentemente contenuti educativi e morali. Per quanto coinvolgessero
molto i ragazzi nella preparazione e nell'allestimento, gli spettacoli
non erano artisticamente e poeticamente rilevanti. A volte si sfiorava
la banalità nell'esagerare le conseguenze di un'azione negativa,
e non si lasciava spazio che al solito ritornello secondo cui il cattivo
è destinato a perdere sempre. Riportiamo alcuni stralci di una
commedia di Natale intitolata Meglio al Presepe che al cinematografo:
"Personaggi: Sofia e Adele. Sofia:
Dove andasti ieri sera? Adele: Oh! Bella! non lo sai? Sono andata al
cinema colla mia cara mamma che mi vuole tanto bene, e mi contenta in
tutto, perché dice che io sono la sua gioia e il suo idoletto.
S. La mia mamma non mi dice mai queste sciocchezze. A. E' segno che
non ti vuol bene. S. Anzi è tutto il contrario. L'educazione
sdolcinata non è un balsamo, ma è un veleno; e sono barbare
nemiche dei loro figliuoli quelle madri che li contentano in tutto.
A. Oh, la baccellona che sei! Già hai la patente di non capire
nulla. S. A dirlo ci vuol poco; ma non sai che dicono tutti coloro che
capiscono qualche cosa? Eh! Povera Adele, stai sull'orlo di grandi precipizi
e non te ne accorgi. A. Eccoti con le solite prediche! Ma non siamo
di Quaresima, sai
Lasciamo andare questi discorsi perché
tanto non possiamo trovarci d'accordo. Dimmi piuttosto: e tu dove sei
stata ieri sera? S. Sono stata a visitare il santo Presepio. A. Me l'aspettavo!
Tu sei brava soltanto ad andar dietro a queste devote sciocchezze e
ridicole puerilità
Cara Sofia, la vuoi intendere che i
tempi sono cambiati, e che non è più l'epoca delle capannucce?
(
) S. Rispondi un po': qual mercede ti darà Iddio in Paradiso
per essere stata al cinema di tuo capriccio e portatissima per tali
divertimenti? A. Che ricompensa vuoi tu che mi dia il Signore per essere
stata al cinema? Sara grassa se faremo conti pari, ma ci spero poco.
S. Brava la mia merlotta! Sei caduta nella rete senza avvedertene. Benissimo.
Ho vinto io, e la palma me l'hai data in mano proprio tu. A. Adesso
mi confondi le idee, e allora non posso più ragionare. S. Non
c'è pericolo che ti imbrogli, perché non ho mai fatto
questo mestiere. I buoni principii ogni tanto vengono a galla, quando
li abbiamo posseduti una volta, e così è successo a te.
Tu hai confessato che l'andare al cinema non è di nessun vantaggio
per l'anima tua, anzi hai paura che questo cinema ti debba costar caro
nel mondo di là; e persuaditi che ti costerà carissimo
per tante faccenduole che io so e che ti fanno vergogna. Invece a me,
che rinunzio al cinema e me ne vado ai presepi, succede tutto il contrario.
Io santifico quelle ore ricreandomi a gloria di Dio, ed aumento così
il patrimonio dei miei meriti per la vita futura: il S. Paradiso"5.
La rappresentazione mirava a dissuadere
gli adolescenti dalle cattive abitudini, talvolta apprese in famiglia,
attraverso la logica semplicistica di una delle protagoniste. Si invitava
a privilegiare iniziative religiose piuttosto che svaghi mondani, a
guadagnarsi la retribuzione del Paradiso, ad ottenere la grazia per
condurre una vita moralmente ordinata. Si cominciava generalmente con
una tesi da dimostrare, e si procedeva finché il ragionamento
e il buonsenso non costringevano ad ammettere la veridicità di
quanto affermato. Il tono delle conversazioni aveva un forte contenuto
parenetico, mirava cioè alla dissuasione di tutto ciò
che poteva allontanare dalla fede e da Dio. Il cinematografo era uno
dei grandi ostacoli contro cui il Ricreatorio si trovò ad operare.
Non potendo arginare il fascino che esercitava sugli adolescenti, dal
1919 si creò un cinema nel salone Pio X: "Dopo la guerra mondiale,
con gravi sacrifici fu aperto il Cinema Famiglia, con gravissimi sacrifici
funzionò, date le difficoltà del tempo, specialmente per
la scelta dei film"6. Altre rappresentazioni avevano temi religiosi,
la devozione al Sacro Cuore, la carità, i sette peccati capitali,
la giustizia divina, la dannazione eterna, le tentazioni, i comandamenti,
le opere di misericordia corporali e spirituali. Spesso il teatro diventava
una rara occasione catechistica per le famiglie che accompagnavano i
ragazzi. Non è difficile trovare nei copioni la critica agli
adulti dal comportamento ambiguo, rappresentati sempre dagli stessi
personaggi negativi, oppure da macchiette stereotipate. I contenuti
riguardavano generalmente la chiesa, la fede e la pietà dell'epoca.
Interessante è la trattazione del tema vocazionale, in un dialogo
intitolato Che cosa è la vocazione religiosa:
"Personaggi: Pierino e Mario. P.
Sai la novità? M. No, quale? P. Gigino si fa prete! M. Prete!
(meravigliato) P. Si, l'ho lasciato solo un'ora fa e m'ha detto che,
appena fatti gli esami di quinta, andrà in Seminario. M. E perché
va in Seminario? P. Oh bella, perché sua madre lo vuole! Qualche
volta l'ho sentita anch'io dire alle sue amiche: "Quando Gigino sarà
grande ne farò proprio un sacerdote. Bella cosa fare il sacerdote,
si gode una vita comoda, agiata, senza pensieri, senza fastidi! E poi,
è ancora l'unica professione che non teme disoccupazione!
M. E sua madre lo vorrebbe sacerdote per questo? Per guadagnare denari?
Ma non sai che il sacerdote deve somigliare a Gesù, il quale
ha detto: "Come hanno trattato me, tratteranno anche voi; vi mando come
agnelli in mezzo ai lupi" e tu capisci bene la sorte dei primi fra i
secondi
Guarda ad esempio il nostro signor Curato, dopo tanti
anni di ministero è sempre povero, fa la carità a tutti,
e si leverebbe il mantello, come ha fatto S. Martino, per darlo al bisognoso.
P. Questo è vero, e nessun povero torna dalla casa del sacerdote
senza essere beneficato. M. Eppoi, per essere sacerdoti, bisogna essere
chiamati da Gesù, che solo ha il diritto di eleggere i dispensatori
delle sue grazie, i continuatori della sua opera, come il padrone ha
il diritto di scegliere i suoi operai, il generale i suoi soldati. (
)
P. Non so capire però, come in certi paesi ci siano tanti chiamati
al sacerdozio e in altri nessuno. M. Il sacerdozio è un dono
grande di Dio, dobbiamo meritarlo e chiederlo con la preghiera, come
ci ha insegnato Gesù: "La messe è molta e gli operai sono
pochi; pregate pregate il padrone che mandi dei buoni operai nella sua
vigna. (
) P.
per condurre a Gesù tante anime e farci
santi. Oh bravo, e un'altra cosa possiamo fare: offrire l'obolo nostro,
perché coloro che Iddio chiama, e non hanno mezzi sufficienti
per studiare, possano essere aiutati. E' strano ma evidente: Iddio chiama
quasi sempre i suoi sacerdoti fra i poveri. M. Oh questo lo fa certamente
per offrire, a coloro che possono, il mezzo di farsi grandi meriti.
P. Ho capito, e spero che avrete capito anche voi (al pubblico) M. Vedi
Pierino, il nostro signor Curato, anche lui è figlio di una umile
famiglia; il Signore lo chiamò, lo fece suo ed oggi eccolo in
mezzo a noi a lavorare, a soffrire, a piangere, a fare del bene alle
anime nostre"7.
L'attività teatrale ampliò
il suo repertorio negli anni Venti, introducendo i principali rappresentanti
della letteratura italiana ed europea. Il livello culturale crebbe notevolmente
quando furono presentate le opere, per quanto ridotte, di Molière,
Alfieri, Goldoni e, più tardi, Pirandello, e recitate le poesie
di Leopardi, Pascoli e Manzoni.
Il mondo culturale fermano del
primo Novecento, come abbiamo ricordato, era fortemente influenzato
dall'anticlericalismo massonico e socialista da un lato, e dallo spirito
apologetico ed intransigente dei cattolici dall'altro. La dialettica
maggiore si esprimeva nelle discussioni polemiche delle numerose riviste
esistenti, tra cui spiccavano per importanza e diffusione La voce delle
Marche, La Mosca e La Lotta. Gli studenti che frequentavano il San Carlo
respiravano questo clima di diffidenza e di scontro, e ricevevano stimoli
culturali molto divergenti tra loro, spesso radicalmente opposti. Il
giovane studente che frequentava il San Carlo si trovava a recepire
le idee cardine del laicismo liberale parallelamente a quelle dell'intransigentismo
cattolico. Il Ricreatorio contribuì al dibattito emergente con
una rivista, Cultura Giovanile, fondata nel 1910 e diffusa fino al 1923.
La rivista divenne un punto di riferimento notevole per la semplicità
del linguaggio adottato, e perché molti degli interventi provenivano
dagli studenti stessi. Le testimonianze orali raccolte concordano nel
riconoscere l'importanza di questo rivista, ma di essa non rimane alcun
fascicolo. Inoltre, si diede inizio ad un circolo culturale intitolato
a Silvio Pellico, diviso in due sezioni, una di studenti, fondata nel
1911 ed una di operai, fondata nel 1914. La sezione operaia, anche se
non ebbe un grande successo numerico, era tuttavia uno dei primi tentativi
di sviluppo della costituzione di nuclei nel mondo del lavoro dopo la
Rerum Novarum, e rappresentava, nel fermano, l'unica alternativa al
mondo sindacale. Coordinatore di queste iniziative era don Federico
Barbatelli. Di lui ricorda mons. Alessandro Bellucci, suo amico e giovanissimo
collaboratore: "Direttore e anima della rivista era don Federico Barbatelli,
professore di storia ecclesiastica in seminario, già compagno
di studi a Roma dell'attuale Segretario di Stato cardinale Cicognani.
Uomo coltissimo, di straordinaria intelligenza e chiarezza di idee,
egli era sempre pronto ad aiutare chi desiderava approfondire i massimi
problemi. Una terribile malattia lo sottrasse troppo presto alla sua
luminosa attività"8. La rivista Cultura Giovanile non ebbe vita
facile perché era attaccata su due fronti: doveva rispondere
alle polemiche degli anarchici e dei socialisti, ma anche a chi, nella
chiesa, la accusava di essere vicina alla più celebre Cultura
Sociale, fondata e diretta da Murri.
3.3.
Lo scoutismo
Come è
noto, la nascita dello scoutismo in Italia si deve al maestro elementare
genovese Mario Mazza, che nel 1905 fondò la Juventus iuvat, un'associazione
giovanile antenata del gruppo esploratori. Nello stesso periodo, in
Inghilterra, usciva un volumetto intitolato Scouting for boys, a cura
dell'ex generale inglese Baden Powell. La gioventù inglese e
le autorità militari accolsero con favore questa pubblicazione,
permettendo la nascita di un movimento che, in poco tempo, si diffuse
anche all'estero. Mazza vedeva nello scoutismo un sistema efficace per
contrastare l'estraneità della scuola nei confronti della vita
dei giovani. La scuola era su programmi "enciclopedici e frammentari,
razionalistici, artificiali, insufficienti, che istruiscono ma non educano"9.
Il fine del movimento era, dunque, educativo e pedagogico. Per realizzare
il suo progetto, Mazza scrisse alle più eminenti personalità
della politica, della cultura e della chiesa dell'epoca, chiedendo appoggio
per realizzare il tentativo molto ambizioso di "far uscire dalla scuola
arida, togliere dall'egida dei programmi governativi, dagli strettoi
privilegiati, l'azione educativa, portarla all'aperto, libera, amorosa,
intensa, per farla fruttare meglio"10.
La chiesa ebbe, all'inizio, un
atteggiamento di diffidenza verso l'opera di Mazza. Prima di tutto per
i pricipî che guidavano il movimento, decisamente aconfessionale
e apolitico. Inoltre era discussa l'eccessiva importanza data alla ginnastica
e alla natura, a scapito delle pratiche religiose tradizionali. L'istituzione
era vista come una semplice aggregazione giovanile, spesso dipendente
dalla massoneria e profondamente influenzata dal protestantesimo, anche
se formalmente aconfessionale. Le altre associazioni cattoliche avevano
sempre un chiaro fine religioso-morale, mentre per lo scoutismo di Mazza
questa preoccupazione non era prioritaria. La promessa che si faceva
entrando a far parte del gruppo, ad esempio, non aveva un riferimento
immediato alla religione cattolica, ma si limitava a ricordare un dovere
generico verso Dio, mentre era fortemente sottolineato il valore della
coscienza individuale, della tolleranza, dell'impegno personale. Inoltre
era ritenuto fondamentale il rapporto con la natura in quanto tale,
ritenuta strumento di elevazione umana e spirituale. Tutto questo non
faceva che allontanare il gruppo di Mazza dalla chiesa romana, che temeva
l'intiepidirsi della fede dei giovani. I gesuiti furono tra i primi
a prendere le distanze dal movimento, seguiti da molti altri ordini
religiosi, anche se, tacitamente, continuava una certa collaborazione
tra la gerarchia e la base. Nel 1915, la posizione della Civiltà
Cattolica si pronunciava sull'argomento, esprimendo sia l'opinione della
Compagnia sia quella ufficiosa della chiesa:
"Basterà qui richiamare
i due cardini principali sui quali si aggira questo nuovo sistema educativo:
1) educazione fisica per mezzo di speciali esercizi destinati a dare
robustezza e spontaneo ardimento; 2) educazione morale e formazione
del carattere fondata sul sentimento dell'onore. Ora una parte dà,
se non massima, certo esagerata importanza allo sviluppo e addestramento
fisico (detto impropriamente educazione); l'altra assegna come motivo
dell'azione virtuosa un principio puramente esteriore e superficiale:
ambedue concorrono ad una formazione morale e civile naturalistica,
molto simile alla maniera degli spartani"11.
Chiesa e scoutismo si trovavano
su posizioni molto diverse, pur avendo un reciproco bisogno. La chiesa
perdeva terreno nei confronti delle giovani generazioni, mentre gli
scouts, nella originale versione inglese, avevano sempre avuto un'attenzione
particolare per la fede degli aderenti, fatta di rispetto e di fedeltà
alla propria scelta. Era dunque necessario trovare un punto di incontro.
Nel 1912, per iniziativa del prof. Carlo Colombo, nacque il Corpo nazionale
dei Giovani Esploratori Italiani, una versione laica dello scoutismo.
La chiesa ebbe l'impressione e il timore di rimanere estranea dall'evoluzione
educativa e di perdere un'occasione preziosa di incontro con i giovani.
Per questo, nel 1914, si arrivò alla nascita dello scoutismo
confessionale, i Ragazzi esploratori cattolici, sempre coordinati a
livello nazionale da Mazza.
I motivi dell'accordo non riguardavano
solo esigenze pastorali della chiesa. La Reci nacque per interesse degli
stessi aderenti, che videro possibile un'affermazione solida in Italia
solo attraverso la collaborazione con la chiesa cattolica. La subordinazione
delle tematiche proprie dello scoutismo alle scelte ideali della chiesa
era il prezzo da pagare per ottenere dalla gerarchia ecclesiastica quell'appoggio
che poteva consentire all'associazione di sopravvivere e di diffondersi
su scala nazionale. In realtà, gli Esploratori cattolici erano
un sottogruppo dei Giovani esploratori italiani. Tra loro, al di là
degli accordi formali, non esisteva una vera collaborazione, tanto che
la gerarchia ecclesiastica continuava ad essere scettica perché
non vedeva rispettate le esigenze di culto degli Esploratori cattolici.
La convivenza non era stata mai molto chiara, ma si faceva sempre più
visibile la differenza tra lo scoutismo aconfessionale e quello cattolico.
Le strade da percorrere erano due: insistere nella costituzione di sezioni
autonome di scouts cattolici all'interno del Corpo nazionale dei giovani
esploratori, oppure creare un'associazione confessionale totalmente
nuova. Si affermò questa seconda ipotesi, con la nascita dell'Associazione
scoutistica cattolica italiana, nel gennaio del 1916. Il conte Mario
di Carpegna, già impegnato nelle associazioni sportive cattoliche,
fu nominato commissario centrale.
Lo scoutismo fermano ripercorse,
in sede locale, le vicende nazionali. Un primo nucleo ebbe inizio al
Ricreatorio San Carlo nell'aprile 1915, come sezione della società
sportiva Victoria: "La società sportiva Victoria di Fermo, riunita
in adunanza straordinaria, -si legge ne La Voce delle Marche del 24
aprile del 1915- ha votato all'unanimità il seguente ordine del
giorno: considerando che l'Istituzione dei giovani esploratori (boy
scouts) è teoricamente e praticamente buona per l'educazione
morale, civile, patriottica della gioventù, la Victoria si fa
iniziatrice della costituzione a Fermo di una sottosezione del Corpo
Nazionale dei Giovani Esploratori (GEI)". L'iniziativa ottenne l'approvazione
delle autorità e di molte personalità influenti, che contribuirono
all'apertura anche con il sostegno economico. La divisa era a carico
degli iscritti, costava 2,5 lire e si limitava solo al cappello. Un
gruppo di adulti si divise le responsabilità della gestione:
il Conte Giovanni Vitali Rosati, Domenico Astorri, Giuseppe Trasatti
presieduti dal Conte Paolo Emilio Sacconi.
Il 15 aprile 1916 Mario di Carpegna
scrisse una lettera a don Biagio Cipriani in cui si compiaceva dell'operato
della sezione scout, e dove mostrava un certo interesse perché
il gruppo dei giovani esploratori aderisse alla nuova associazione scoutistica
cattolica italiana. Si tratta del più antico documento autografo
che testimonia l'esistenza del Fermo I:
"M.R. sac. Biagio Cipriani vicepresidente
della sottosezione fermana dei G.E.I. In risposta alla pregiata sua
del 13 corr., mi compiaccio con Lei del buon andamento dei Giovani Esploratori
appartenenti al Corpo Nazionale; e sono sicuro che, se essi potranno
continuare come vivamente le auguro sotto la Sua buona influenza, a
fruire della educazione scoutistica integrale, non disgiunta cioè
dalla vita spirituale e dalle pratiche religiose, essi saranno di buon
esempio a tutti i loro piccoli colleghi d'Italia. Nelle poche linee
che precedono la pubblicazione, per parte della "Giunta Speciale dei
Giovani Esploratori", dello statuto e delle norme esplicative per la
Associazione Scoutistica Cattolica Italiana, tra l'altro è detto
che "rimarrà sempre nei voti delle Presidenze della G.C.I. e
della F.A.S.C.I. il desiderio di cristiana concordia e di fraterna cooperazione
coi Giovani Esploratori Italiani". Finché nella sua coscienza
rimarrà una fondata speranza di raggiungere questa fraterna,
santa concordia; finché la Sua presenza nella sottosezione di
Fermo le permetterà di ottenere che dei fanciulli cattolici credenti
e praticanti appartengano al Corpo Nazionale dei G.E.I. senza detrimento
dei loro doveri, dei loro sentimenti, della loro dignità di cattolici,
la Sua opera, nonché da noi censurabile, potrà essere
da noi altamente apprezzata, e certamente lo sarà. Con questo
augurio, e ringraziandola dei Suoi voti di prosperità per la
nostra A.S.C.I., godo confermarmi Suo devot.mo. Il Commissario centrale
Mario di Carpegna. Post Scriptum 20 aprile. Mando la presente per non
più tardare. Avrei voluto farla approvare dai colleghi del Cons.
Centrale, ma per causa degli esercizi spirituali molti consiglieri appartenenti
alla G.C.I. mancarono alla seduta di martedì 18, la quale non
trattò che affari non soggetti a discussione".
Il passaggio auspicato non avvenne
immediatamente, probabilmente a causa della guerra che limitò
ogni attività. Gli scouts, durante il primo conflitto mondiale,
esercitarono il loro servizio in collaborazione con il Comitato di Mobilitazione
Civile e con la Croce Rossa. Ma la lettera del Conte Mario di Carpegna
non cadde nel vuoto. Il 4 maggio 1923, don Biagio Cipriani scrisse all'ASCI
chiedendo di censire ufficialmente il nucleo fermano:
"Questa Società Sportiva
che vive da quindici anni non ingloriosamente, pur restando nel campo
ginnastico con la sua squadra e nei diversi rami dello sport cui chiede
e dà l'attività sua, ha fondato un Riparto Scautistico
di cui chiede l'immatricolazione. I giovani dimostrano molto entusiasmo.
Durante la guerra questa nostra società si fece iniziatrice,
per ragioni di opportunità, di una sezione Esploratori del Corpo
Nazionale. La sezione era fra le prime d'Italia per la sua serietà
e attività, secondo il giudizio dei dirigenti. Il Corpo Nazionale
si sciolse a guerra finita e ormai non ha più speranza di risurrezione.
I giovani cattolici che vi partecipavano si son tutti iscritti al nuovo
Riparto e parecchi della Sezione Nazionale passati poi al Circolo Giovanile
Cattolico tornano con noi alla vita scautistica. Porgiamo il saluto
riverente ai nostri Dirigenti tutti, pregando che l'immatricolazione
non tardi".
La lettera spiegava, seppure sinteticamente,
i motivi per cui il Reparto Fermo I° aveva inizialmente aderito
ai Giovani Esploratori, e confermava l'intenzione di mantenere l'associazione
scout interna alla Società Sportiva Victoria. La risposta del
Commissariato Centrale arrivò subito e il primo censimento avvenne
il 1° dicembre 1923. Nel modulo si descrivevano le caratteristiche
del gruppo, tra cui il colore giallo-azzurro del fazzoletto, il francese
come lingua parlata, oltre, naturalmente, all'italiano. Nei primi anni
si susseguirono come direttori Alceo Zavaldi, Luigi Tombolini, Pietro
Paglialunga e Marcello Seta. Gli assistenti ecclesiastici furono don
Biagio Cipriani fino al 1925, e don Mario Scoponi dopo il 1926. In realtà,
don Cipriani rimase a Fermo anche nei primi mesi del '26, ma il censimento
compiuto nel mese di dicembre non lo nomina. L'adesione all'ASCI del
reparto Fermo I° risale all'8 maggio 1923. Il reparto era composto
da quattro squadriglie: Leoni, Falchi, Aquile e Rondini. Nel 1923 l'associazione
contava ventuno iscritti, nel 1924 trentuno, nel 1925 venti, nel 1926
diciannove, nel 1927 ventotto. Complessivamente il numero degli aderenti
ufficiali oscillava tra le venti e le trenta unità, mentre i
partecipanti alle manifestazioni erano molti di più, poiché
molti giovani non avevano mezzi per pagare l'uniforme e garantire un
impegno costante, ma avevano interesse ed entusiasmo a partecipare alle
attività generiche.
3.4.
L'Azione Cattolica
Tra le iniziative sorte al San
Carlo un posto particolare spetta all'Azione Cattolica, nata grazie
al sostegno personale di mons. Castelli e alla collaborazione di don
Biagio Cipriani. Come per lo scoutismo, il Ricreatorio San Carlo può
vantare la primogenitura diocesana dell'Azione Cattolica. In una intervista
del 18 aprile 1943 a don Roberto Massimiliani, lo stesso don Cipriani
ricorda il fermento dei movimenti giovanili cattolici e la nascita dei
primi gruppi antenati dell'ACI:
"Domanda: che esisteva in diocesi
di Azione Cattolica quando don Biagio Cipriani cominciò la sua
attività? Risposta: cominciai nel 1909. A quanto ricordo nulla
esisteva di vera e propria Azione Cattolica giovanile; vi era soltanto
qualche pia associazione di Luigini. Domanda: vi erano associazioni
aggregate alla Gioventù Cattolica? Quali? Risposta: come sopra,
nessuna. Domanda: l'Opera dei Congressi aveva avuto una Sezione Giovanile?
Chi se ne era occupato? Risposta: sì, vi era una Sezione; credo
che dei capi siano stati l'oggi defunto ing. Randi e mons. Cicconi (
)
Domanda: quando fu fondato il Consiglio Regionale della Gioventù
Cattolica? Dove ebbe sede? Per quanto tempo fu diretto da don Biagio?
Risposta: prima degli attuali ordinamenti le Federazioni erano diocesane
e i relativi presidenti costituivano il Consiglio Regionale, il quale
eleggeva il Presidente Regionale. Le diocesi che non avevano federazioni
dovevano avere un incaricato. Il sottoscritto per circa quindici anni
(dal 1910 al 1925) fu prima Presidente e poi Assistente Regionale delle
Marche. La sede della presidenza era Fermo; la Cultura Giovanile era
organo ufficiale, ma le adunanze del Consiglio Regionale si tenevano
nei vari centri più importanti della regione. Prima del sottoscritto
credo ci sia stato un solo Presidente Regionale, cioè l'avvocato
Amos Boccaccini di Pesaro che morì tragicamente in un incidente
automobilistico. Domanda: quanti e quali circoli contavano allora le
Marche? La diocesi? E più tardi, verso il 1923? Risposta: quando
presi la presidenza regionale i Circoli giovanili nelle Marche erano
una quindicina; nell'arcidiocesi di Fermo, come si è detto, non
ve ne era alcuno, neanche il Circolo Silvio Pellico che fu costituito
ed aggregato più tardi. Verso il 1923 i Circoli nelle Marche
dovevano essere circa 150".
Questa intervista, che in molti
tratti assume la familiarità di un colloquio, risale ad un anno
prima della morte di don Biagio, ed offre molte informazioni preziose
sull'andamento e sulla strutturazione delle associazioni giovanili cattoliche,
tra cui quelle aventi sede al San Carlo. Il sostegno del Ricreatorio
a favore dell'AC non era un'iniziativa personale degli assistenti ecclesiastici,
ma trovava la sua origine ed il suo impulso nel pastore della diocesi,
come era avvenuto per molte altre attività. Quando mons. Castelli
arrivò a Fermo, l'Opera dei Congressi era già stata chiusa,
e con essa si erano spente tutte le vivaci associazioni che facevano
riferimento al movimento cattolico. Tuttavia, era molto diffusa la volontà
di superare il momentaneo stallo politico, e quelli che erano stati
i primi fermenti che avevano animato la diocesi in maniera capillare,
fin nelle periferie, erano pronti a riorganizzarsi. L'azione politica
doveva, però, essere coniugata con la sfera religiosa ed interagire
con essa, per evitare il duplice rischio di sociologismo da un lato
e di spiritualismo dall'altro. Il vescovo aveva chiarito più
volte questa linea nelle lettere pastorali. Mons. Castelli aveva sempre
creduto che il fondamento della pastorale giovanile dovesse essere la
catechesi classica in una forma rinnovata e brillante, magari unita
a pratiche di pietà contemplate dalla tradizione. Tutto ciò
sarebbe dovuto servire a far maturare al giovane una coscienza di cristiano
e di cittadino, di persona libera ma spontaneamente sottomessa alla
gerarchia, di individuo facente parte allo stesso tempo della chiesa
e della comunità civile, e dunque chiamato a testimoniare il
Vangelo con le scelte della propria vita. Questa impostazione trovava
la sua applicazione ideale nell'ACI.
Il San Carlo organizzò la
formazione della Gioventù Cattolica in coerenza con i principi
seguiti dall'AC a livello nazionale: 1- Il primo compito era centrare
la propria azione per la causa della chiesa nella salvezza delle anime,
cioè fornire ad ogni associato gli strumenti per la santificazione
personale e per un'azione feconda nella società. 2- L'ecclesialità
intesa come devozione alla Santa Sede, come amore verso il papa. Forte
è l'influenza del Concilio Vaticano I: il papa è la pietra
fondamentale dell'edificio spirituale, essere con il papa significa
avere la garanzia di essere con la chiesa. 3- Lo studio della religione,
in cui si collocano le iniziative culturali di cui don Cipriani stesso
ci ha dato testimonianza. Per studio della religione, o scuola di religione,
è da intendersi quello che oggi chiamiamo catechesi, e che era
portato avanti da mons. Capotosti. Di fronte all'indifferenza del mondo
moderno, era percepito come un compito essenziale quello di rendere
ragione della propria fede. 4- La testimonianza considerata il principale
atteggiamento evangelizzante, l'unico strumento in grado di compensare
le frequenti crisi dell'età giovanile e le avversità dell'ambiente.
5- La carità intesa come soccorso generico di chi ne ha bisogno.
Il giovane cattolico era chiamato a rendere visibile il comando evangelico
dell'amore attraverso le forme esistenti nella chiesa, come la conferenze
di Vincenzo de' Paoli, gli ospizi cattolici, i Pii Sodalizi. Tutto il
programma veniva riassunto nel trinomio: preghiera, azione, sacrificio.
Parallelamente alla Gioventù
Cattolica, nacque nel Ricreatorio, anche se non si diffuse in diocesi,
la prima sezione della FUCI. Una lettera del comitato centrale certifica
la fondazione del primo nucleo nel 1916 ed il conferimento della nomina
di primo presidente a Marcello Seta. La FUCI, come ricorda lo stesso
don Cipriani, non ebbe un grande sviluppo, perché non esisteva
a Fermo un ateneo di prestigio che richiamasse una numerosa presenza
di studenti universitari. La FUCI si limitò ad offrire un'assistenza
spirituale agli studenti che, risiedendo fuori, tornavano alle loro
famiglie per il fine settimana.
3.5.
l Ricreatorio e la pastorale cittadina: novità e tradizione
Le parrocchie
di Fermo avevano recepito ed apprezzato il contenuto educativo dell'azione
di don Cipriani, ma fondamentalmente continuavano a dubitare dell'utilità
di tali iniziative. Il motivo di questo atteggiamento va ricercato nel
fatto che il clero era fermo ad un'immagine della società che
era quella rurale, legata ai ritmi dell'agricoltura, alla devozione
verso i santi, alle Rogazioni, alla benedizione delle campagne. Non
era richiesto un approccio religioso diverso, perché le trasformazioni
sociali, nel mondo rurale, erano molto lente, non paragonabili ai cambiamenti
dei borghi. Inoltre il clero viveva legato profondamente alle forme
di pietà tradizionali e faticava non solo a pensarne di nuove,
ma anche ad accettare quelle proposte da altri. In definitiva, non sarebbe
stato possibile instaurare un diverso rapporto con gli adolescenti,
poiché i sacerdoti non erano formati per sostenerlo. Il Ricreatorio,
e la pastorale giovanile in genere, richiedevano l'abbandono della mentalità
clericale, a vantaggio di un confronto sincero e libero sui temi principali
della dottrina cattolica. Questo tipo di rapporto non si poteva improvvisare,
ma implicava una lunga preparazione che sarebbe servita a motivare la
ragionevolezza delle scelte del cristiano. Il catechismo basato su domande
e risposte faceva fronte all'esigenza di non consentire obiezioni e
dibattito, e di imporre mnemonicamente una serie di concetti, risultando
rassicurante per i formatori. Anche la liturgia esprimeva questo tipo
di mentalità: il rito latino, incomprensibile ai più,
non costituiva una vera celebrazione comunitaria, ma era recepito piuttosto
come l'offerta di un sacrificio del celebrante al quale assisteva l'assemblea.
La messa dialogata in italiano, introdotta al San Carlo fin dai primi
anni del secolo, trovò grande opposizione non solo perché
era una novità troppo grande per essere capita in pienezza, ma
anche perché obbligava ad un confronto non mediato con l'assemblea
che si aveva di fronte. Non si vuole sostenere che il latino servisse
solo da schermo, ma certamente vi era un legame diretto tra liturgia
ed ecclesiologia, nel senso che la liturgia esprimeva il tipo di ecclesiologia
che si intendeva promuovere.
Rimane da precisare che cosa si
intendesse per messa dialogata, se un commento del celebrante al rito
eucaristico, o un'omelia che aveva i ragazzi come interlocutori. Infatti
è da escludere una celebrazione totalmente in italiano come quella
odierna, sia perché non esistevano le traduzioni ufficiali, ed
è assai improbabile che i testi fossero stati tradotti dagli
stessi formatori, sia perché una simile innovazione non sarebbe
stata tollerata. Don Biagio Cipriani commenta questo periodo del San
Carlo ricordando le principali attività pastorali: "Nel Ricreatorio
si cominciò con la Messa festiva, che dopo qualche anno divenne
dialogata, e con la scuola di religione che proseguì costantemente
e con programma ampliato ed aggiornato; la Domenica delle Palme si faceva
solennemente la Comunione Pasquale con la Messa di mons. Arcivescovo.
In seguito: comunione mensile, adorazione nel I° venerdì
del mese nel Santuario del Pianto, mese di Maggio, partecipazione al
Corpus Domini, ecc. ecc. Da notare che in occasione del Congresso Eucaristico
Regionale a Fermo fu costituito anche un gruppo universitario della
FUCI, il quale, però, ebbe una vita grama. In seno al Circolo
Silvio Pellico fu costituita e funzionò benino una sezione giovanile
della Conferenza di S. Vincenzo de' Paoli".
Va osservato anche che molte delle
novità espresse dal San Carlo non potevano realisticamente essere
attuate altrove. Il Ricreatorio poteva permettersi l'introduzione di
queste innovazioni perché usufruiva della collaborazione di forti
personalità. In un primo momento la direzione spirituale fu affidata
a don Luigi Capotosti, più tardi cardinale, successivamente a
don Massimiliano Massimiliani, poi vescovo di Modigliana, e don Marcello
Manfroni, padre spirituale in seminario per circa mezzo secolo. Il lavoro
formativo non gravava solo su don Biagio; molte scelte pastorali erano
fatte d'intesa con il vescovo e in accordo con molti "esperti" di gioventù.
In altre parole, non è paragonabile l'impostazione del San Carlo
con quella di una parrocchia, perché troppo diverse erano le
realtà in cui si era chiamati ad operare. Don Biagio ricorda
che il clero era per lo più indifferente, pur non assumendo una
posizione pregiudizialmente ostile, e ricorda anche il fondamentale
ruolo di promotore e di garante esercitato dall'arcivescovo Castelli:
"Il clero sapeva e vedeva che l'opera che si svolgeva per la gioventù
era voluta e diretta da mons. Arcivescovo e perciò nessuno faceva
visibile opposizione. Non mancava qualche superzelante che suffiava
a Roma e mons. Arcivescovo per qualche manifestazione patriottica di
cui sopra ebbe qualche fastidio. In genere posso dire che i confratelli
sacerdoti hanno guardato alla nostra attività giovanile con favore.
Ricordo che una volta un vecchio canonico mi disse: per il lavoro che
fai io ti dispenserei anche dalla recita dell'Ufficio".
I parroci continuarono a porre
problemi sul metodo della pastorale giovanile, sull'opportunità
e sull'utilità del Ricreatorio. Alle questioni teoriche si sostituirono
quelle pratiche, che riguardavano il contributo economico che ciascuna
parrocchia era chiamata a versare al San Carlo. Era prevista una ripartizione
delle spese in base alle utenze, che non vedeva però d'accordo
le parrocchie più vicine al Ricreatorio che avevano una frequenza
maggiore. Si raggiunse una forma di sostentamento mista: una parte dei
contributi veniva dalle parrocchie e una parte dal fondo diocesano.
Il Ricreatorio ebbe sempre una sua struttura autonoma e si affermò
con una certa indipendenza rispetto ad altre istituzioni diocesane.
Un dato emerge chiaramente: il
San Carlo deve molto della sua esistenza e del suo sviluppo a mons.
Castelli che, in alcuni momenti, fu un sostegno fondamentale e un difensore
strenuo del Ricreatorio. Il suo ruolo fu essenziale all'inizio del secolo,
e soprattutto durante il fascismo, quando dimostrò fermezza e
mediazione nel garantire un futuro alle associazioni cattoliche.
I rapporti tra Ricreatorio e fascismo
(1919-1931)
4.1. Il fascismo,
la S. Sede e le associazioni giovanili
Nel 1919 l'opera educativa del
San Carlo sembrava non avere soste. Le attività si moltiplicavano
nonostante la scarsità di mezzi, dovuta alla prima guerra mondiale
terminata da poco Gli adolescenti incontravano educatori carismatici
pronti all'ascolto, nuovi interessi da coltivare, proposte culturali,
un ritrovato rapporto con la fede e la chiesa. Tuttavia, nonostante
il consenso crescente nei riguardi delle sue iniziative, il Ricreatorio
non coinvolgeva tutti i giovani della città. Ampi strati della
popolazione operaia rimanevano estranei agli orari e ai ritmi del San
Carlo, come molta parte di quella studentesca, influenzata dalla propaganda
socialista e massonica. Per non parlare della popolazione rurale, esclusa
dalla pastorale giovanile e scarsamente considerata dalle istituzioni
civili. Nella città di Fermo ogni proposta educativa aveva il
suo spazio, a garanzia di una ragionevole convivenza tra realtà
ideologicamente lontane. D'altra parte, se la chiesa aveva forzatamente
lasciato la scuola, era legittimo e prevedibile che concentrasse le
sue attività nell'ambito ecclesiale, preoccupata soprattutto
di difendere i giovani dalle influenze negative della società
civile. Fin dagli ultimi anni dell'Ottocento, la chiesa aveva combattuto
contemporaneamente il socialismo e il liberalismo, ed era spesso riuscita,
seppure a fatica, a respingere il laicismo, almeno negli ambienti non
industrializzati. Nelle campagne come nei centri urbani, la gente continuava
ad avere grande stima e fiducia nei confronti del clero. Del resto l'anticlericalismo
italiano non assunse mai caratteri persecutori.
All'inizio degli anni venti le
vicende dell'oratorio fermano risultano fortemente segnate dall'avvento
e dall'affermazione del regime fascista. I rapporti difficili, come
anche i compromessi più o meno stabili tra la gerarchia ecclesiastica
e il nuovo corso della politica italiana, non mancavano di esprimersi
anche a livello locale, dove le scelte, le distinzioni, le reticenze
della gerarchia e del clero finivano per concretizzarsi nella prassi
pastorale. I toni rassicuranti dello stesso Mussolini, che già
nel 1921 sembrava prendere le distanze dalle premesse anticlericali
del programma di S. Sepolcro, lasciando intravedere con chiarezza la
possibilità di un incontro con il cattolicesimo e la chiesa,
anche nel nome di una comune riserva critica antiliberale, finirono
per legittimare le prospettive di una ricomposizione della società
cristiana in Italia al di là della frattura risorgimentale. Certamente
non sfuggivano alle gerarchie ecclesiastiche le contraddizioni interne
al movimento fascista, o meglio la coesistenza di anime diverse che,
da un lato si riconoscevano in un comune impulso rivoluzionario, e,
dall'altro, erano disposte, almeno formalmente, a trattare con quelle
istituzioni, come la chiesa cattolica, che rappresentavano la continuità
e la tradizione secolare del paese.
In un contesto del genere, caratterizzato
da spinte propulsive e dichiarazioni rassicuranti, le organizzazioni
cattoliche si trovavano nella necessità di salvaguardare la propria
identità, rinsaldando i legami con la gerarchia, e di tutelare
gli spazi di autonomia operativa. E infatti, la prospettiva di una soluzione
confessionale della Questione romana maturava contemporaneamente ad
una prassi politica che tendeva alla realizzazione dello stato totalitario
di massa. L'abolizione della libertà di stampa, lo scioglimento
dei partiti d'opposizione, la costituzione del Tribunale speciale per
la difesa dello stato con incarichi di polizia, la limitazione del diritto
di riunirsi in assemblea, il controllo del dissenso erano espressioni
di una politica repressiva che aveva come fine l'organizzazione di una
dittatura che, diversamente dagli stati assolutistici, mirava alla formazione
del consenso delle masse.
Per questo il fascismo considerò
fondamentale il controllo delle giovani generazioni, attraverso la propaganda
e specifiche organizzazioni. Il fascismo si occupò fin dagli
inizi della formazione dei bambini e dei fanciulli, attraverso l'Opera
Nazionale Balilla, divisa in "figli della lupa" (per bambini di 6-7
anni), "balilla" (fra gli 8-14) e gli "avanguardisti" (dai 15-18). Per
chi proseguiva gli studi c'erano i Gruppi Universitari Fascisti, per
gli altri la Gioventù Italiana del Littorio. Lo sport e l'educazione
giovanile erano un mezzo per favorire lo sviluppo di una cultura fascista
e inculcare la sottomissione e la fedeltà assoluta verso lo stato.
"Qual è la formula fascista della vita nazionale? Tutto nello
Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato". L'educazione
non era un fine, né per la chiesa né per il fascismo.
Nessuna di queste due forze aveva un interesse in sé per lo studio,
il divertimento e il tempo libero dei giovani; entrambe utilizzavano
la sfera ludica e ricreativa per creare consenso e formare le coscienze,
sia pure, ovviamente, in direzioni molto diverse. Così entrarono
presto in conflitto.
I rapporti della chiesa con il
regime possono essere schematizzati in quattro momenti: una prima fase
di attesa fino al 1925; una seconda di collaborazione a distanza; una
terza di appoggio dopo la crisi del 1931; una quarta fase di presa di
distanza verso la fine del pontificato di Pio XI. Le prime tensioni
di una certa entità si verificarono nelle sedi locali negli anni
'26 e '27, ed avevano origine da contrasti politici. Spesse volte l'episcopato
italiano era intervenuto per raccomandare l'apoliticità delle
associazioni cattoliche e l'assoluta estraneità da qualsiasi
forma pubblica di collaborazione politica, secondo gli orientamenti
del magistero di Pio XI. Tuttavia le timorose esortazioni servirono
a poco: le continue dichiarazioni di apoliticità non erano ritenute
credibili, anche perché molti aderenti dell'ASCI e dell'ACI erano
membri ufficiali del Partito Popolare. Alcuni prefetti, fin dal 1923,
estesero all'ASCI il decreto legge del 14 gennaio, riguardante l'istituzione
di una milizia volontaria per la sicurezza nazionale, che sanciva lo
scioglimento di tutte le altre formazioni a carattere o inquadramento
militare. In un momento così difficile, i capi scout cercarono
la collaborazione e il sostegno del clero, sperando di ammorbidire l'opposizione
del regime. Ma la risposta, a parte alcuni episodi, non fu incoraggiante:
"I sacerdoti non hanno capito il movimento e non lo aiutano. Qualcuno
ha detto che è "inutile", altri "dannoso" (
). L'aristocrazia,
né l'intellettuale, né la democrazia vuol sapere di esploratori,
mentre anche le buone famiglie vanno orgogliose del loro balilla, e
non danno figli allo scoutismo. E' una società traviata dai liberali
che non vive che delle apparenze esterne e non capisce niente. (
)
Noi andiamo avanti. Che sia lo scoutismo quello che romperà il
cerchio stringente della massoneria?". Lo sfogo della base andava di
pari passo con il tentativo dei vertici dell'ASCI di coinvolgere in
prima persona le strutture istituzionali della chiesa. Questa operazione
subì un rallentamento decisivo perché, proprio nel momento
in cui l'ASCI aveva un bisogno assoluto del sostegno della chiesa, moriva
Mario di Carpegna, l'uomo voluto dal pontefice a capo dell'ASCI, eccellente
mediatore tra i voleri della gerarchia e l'autonomia e la laicità
della nuova associazione. Di fatto si verificò una scissione:
gli assistenti ecclesiastici locali non mancarono di difendere i loro
ragazzi, attirandosi spesso l'ostilità del fascismo e subendo
numerosi episodi di violenza, mentre Pio XI si limitò ad una
difesa molto vaga, senza offrire sostegni concreti a tutela delle scelte
associative. Di fronte alle violenze fasciste, la logica era quella
di evitare una valutazione negativa del regime in quanto tale, individuando
solo in pochi elementi i responsabili di questi episodi, per non acuire
gli attriti. La chiesa era impegnata in quel dialogo con lo stato che
cominciava a dare i primi frutti; sostenere tutte le opere cattoliche
avrebbe potuto incrinare, o forse rompere, ogni progetto concordatario.
In una lettera del 24 gennaio 1927 al card. Gasparri, Pio XI spiegava
che non era sua intenzione creare difficoltà al governo del paese
o indebolirne il prestigio e la forza, ma semplicemente chiarire gli
ambiti d'azione della chiesa:
"E per esaurire quant'è
da noi questo tema dei giovani esploratori cattolici italiani, abbiamo
prima rivolto la nostra attenzione ai reparti costretti a scioglimento
(
) ed abbiamo considerato che anch'essi, i cari giovani, come
il santo re David (
) dicano al Signore: "Se dobbiamo morire sia
per mano vostra, o Signore, piuttosto che per mano degli uomini" e che,
come ubbidendo alla voce del Vicario di Cristo benedicente si adunavano,
così alla stessa voce ubbidendo, preferiscano di sciogliersi;
e disciolti li dichiariamo alla data della presente lettera".
Pio XI mirava a scagionare e conservare
intatta l'Azione Cattolica, di cui l'ASCI faceva parte. In effetti,
il rifiorire della vita religiosa legata alla dimensione parrocchiale,
resa più agevole dopo gli accordi del '29, portò ad un
aumento della considerazione dell'ACI. Ma i contrasti non erano terminati.
La giunta centrale di Azione Cattolica, il 20 aprile 1931, deliberò
la costituzione di sezioni professionali, organizzazioni vicine al movimento
sindacale che si occupavano della formazione professionale dei giovani
e della loro tutela sul lavoro. Il fascismo temette la ricostituzione
di un movimento sindacale ben organizzato, e con un'ordinanza della
Pubblica sicurezza procedette alla chiusura di tutti i circoli facenti
capo ai Consigli Superiori, ai Consigli Diocesani, alla Gioventù
Cattolica, maschile e femminile, alla Federazione Universitaria Cattolica
Italiana. Il papa rispose a questo ennesimo sopruso con un discorso,
del 4 giugno 1931, rimasto celebre per la decisione e l'incisività:
"Si può domandarci la vita,
-osserva, tra l'altro, il pontefice- non il silenzio, quando si fa scempio
di quello che forma la predilezione notissima del nostro cuore e del
Cuore di quel Dio del quale teniamo le veci. Scempio, diciamo, perché
lasciato indisturbatamente prepararsi, dove non passa inosservato l'ultimo
bollettino parrocchiale, prima da una campagna di stampa a base di invenzioni,
di irriverenze e di calunnie, poi da una campagna di piazza e di strada
fatta di irriverenze e di indecenze, di sopraffazioni e di violenze
non rare volte cruente, ben spesso di molti contro pochi e sempre inermi
figli nostri e figlie ancora".
I motivi del contrasto non riguardavano
solo ingerenze politiche, ma vi era un apparato ideologico di sostegno
al fascismo profondamente in contraddizione con il cristianesimo. Il
governo non intendeva smentire la tendenza statolatrica, il culto del
capo unico e supremo, i metodi violenti degli squadristi, una religiosità
più vicina al paganesimo che al cristianesimo. Numerosi interventi
e chiarimenti dell'Osservatore Romano permisero un ripensamento da parte
del regime, e costituirono la base dell'enciclica Non abbiamo bisogno
che il papa pubblicò in italiano per rendere più evidente
la situazione a cui si riferiva e per denunciare il tentativo del governo
di "monopolizzare interamente la gioventù, dalla primissima fanciullezza
fino all'età adulta, a tutto esclusivo vantaggio di un partito
e di un regime, sulla base di un'ideologia che dichiaratamente si risolve
in una vera e propria statolatria pagana". Dopo una serie di trattative
si giunse all'accordo per cui i circoli di AC, dietro alcune garanzie,
poterono riaprire i battenti. Il governo comunicò che era stata
revocata l'incompatibilità tra l'iscrizione al Partito Nazionale
Fascista e quella all'Azione Cattolica.
4.2.
L'allontanamento di don Biagio Cipriani
Anche a Fermo iniziarono ben presto
i primi contrasti tra il governo fascista e la chiesa. L'episodio più
grave avvenne il pomeriggio del 14 febbraio 1926. Un gruppo di giovani
fascisti entrò al Ricreatorio cominciando a disturbare le prove
di una manifestazione teatrale. Dopo le prime reazioni, aggredirono
don Biagio Cipriani schiaffeggiandolo ed insultandolo. Lo scontro rese
ufficiale un dissenso che, con altri toni e mezzi, andava avanti da
parecchio tempo. Nessuno aveva però mai violato lo stato di diritto,
intervenendo con violenza per ostacolare il lavoro del Ricreatorio.
Le difficoltà erano state sempre di tipo burocratico, e la polemica
si era limitata agli articoli di giornale. La situazione precipitò
improvvisamente, costringendo don Biagio alla partenza. Il giorno stesso
partì per Roma dove attese l'arrivo dell'arcivescovo, che era
a Milano. La cronaca più attendibile di quei giorni è
rappresentata dal diario personale di mons. Castelli. Il 16 febbraio
1926 annotava: "Trovo il telegramma che mi annunciava i danneggiamenti
fatti la domenica al nostro Ricreatorio". Il 18 febbraio: "Sono a Milano
(
) A sera parto per Roma". Il 19 febbraio: "Arrivo a Roma. Trovo
don Biagio alla stazione ferroviaria. Andiamo da mons. Pizzardo il quale
approva la nostra condotta e ci propone di recarci dall'Em.za Gasparri.
Poté solo consigliare don Biagio, scriva una relazione del fatto
da stamparsi per l'Osservatore Romano. A sera andiamo dall'Em.za Gasparri
il quale ci promette una lettera di deplorazione, per ora da non pubblicarsi,
in seguito si vedrà". La lettera di deplorazione rimane emblematica
come esempio dell'atteggiamento della S. Sede verso il fascismo. L'episodio
di violenza verso il San Carlo veniva condannato in sé, ma non
in maniera pubblica, così da apparire come una censura verso
i metodi del regime. Don Cipriani scrisse dopo qualche giorno l'articolo
richiesto da mons. Gasparri, che comparve anche ne La voce delle Marche
del 27 febbraio 1926:
"Riferiamo quanto con oggettività
e imparzialità scrive l'Osservatore Romano sui fatti svoltisi
di recente nel Ricreatorio S. Carlo. "Domenica, 14 febbraio, circa le
ore 14.30, un gruppo di giovani, che si afferma fossero fascisti, irrompeva
nel Salone Pio X del Ricreatorio S. Carlo di Fermo, di proprietà
di mons. Arcivescovo Carlo Castelli, gridando e danneggiando notevolmente
il locale e quanto in esso si trovava. Parecchi giovani del Ricreatorio
erano sul palco a provare una commedia da rappresentarsi la sera stessa
e tessuta sopra un episodio che, dopo i giorni angosciosi di Caporetto,
avrebbe contribuito a preparare la vittoriosa riscossa di Vittorio Veneto.
Gli invasori, invitati dal direttore del Ricreatorio, Can. D. Biagio
Cipriani, ad indicare qualcuno di loro a cui dare spiegazioni, risposero
con nuove grida e minacce, infrangendo vetri, poltroncine, lampadine,
scenari, ecc.: una ventina di essi furono poi identificati dall'autorità
sopraggiunta sul luogo. La causa dell'invasione deve ricercarsi nel
diniego di concedere la sala Pio X agli Avanguardisti e Balilla per
una loro recita pro Opera Nazionale Balilla, recita che, come si è
poi saputo, doveva darsi anche con elementi femminili, ciò che
non fu mai permesso nei nostri Circoli. La cittadinanza è rimasta
dolorosamente impressionata per l'accaduto. Non possiamo che vivamente
deplorare questa ingiustificata aggressione, tanto più che incidenti
di tal genere non possono non destare legittime preoccupazioni. Attendiamo
frattanto le ulteriori decisioni dell'Autorità competente".
La situazione di Cipriani rimase
bloccata per alcuni mesi. Per motivi di opportunità era necessario
che non riprendesse la guida del Ricreatorio. Il suo ritorno sarebbe
stato considerato come una provocazione e avrebbe acuito le tensioni
che il vescovo era impegnato a dissipare. Il clima pesante si era creato
non tanto verso la persona di don Biagio, quanto verso l'istituzione
che egli rappresentava e il ruolo che ricopriva. I problemi con il regime,
infatti, non cessarono con la sua partenza, ma continuarono fino alla
definitiva chiusura nel '31.
4.3.
Il ruolo dell'arcivescovo Castelli
La posizione di mons. Castelli
non era, agli occhi del regime, più comoda di quella di don Cipriani,
anche se il vescovo fermano non perdeva occasione per calmare gli animi
e manifestare la sua disponibilità. In occasione di uno degli
attentati a Mussolini scriveva: "Alle 17.30, in duomo canto del Te Deum
per lo scampato spavento di Mussolini. Il Te Deum fu indetto da me d'accordo
col sig. Sottoprefetto. Ne diedi avviso al Sindaco, il quale mi rispose
ringraziando. Il duomo era pieno. Prima del canto dissi due parole.
Il nostro animo è informato da semplice sentimento di dolore,
o meglio di esecrazione e di gioia. Di dolore per l'attentato a Mussolini
etc. merita la riconoscenza e il plauso del mondo per quanto ha fatto
e fa per la salvezza d'Italia e per la pace del mondo. Perché
fu attentato alla sua vita? E dagli stranieri? Ma il nostro dolore si
converte in gioia quando si riflette alla fortuna che ci è capitata.
Che siate degni del capo del governo d'Italia. (
) Il discorso
fece una buona impressione e smontò parecchie batterie puntate
contro di noi; però soltanto di essere troppa verniciatura!!".
Si comincia ad intravedere l'atteggiamento
politico di mons. Castelli favorevole alla distensione, per quanto possibile,
con il regime, pur continuando l'indefessa attività di garanzia
nei confronti del Ricreatorio. Una pagina del Diario particolarmente
significativa è quella del 10 aprile, due giorni dopo il Te Deum,
dove appare con evidenza quanto mons. Castelli avesse a cuore la questione
del San Carlo oltre alla premura nei confronti del suo sfortunato direttore:
"Alle 8.30 sono da mons. Pizzardo al quale espongo la situazione di
don Biagio. Mgr. ne è impressionatissimo e pensa essere necessario
che don Biagio si ritiri immediatamente da Fermo. Parlerà con
mgr. Roveda, alle 16 mi troverò da lui. (
) Alle 16.30 sono
da mgr. Pizzardo, molto affabile ma per decidere bisogna parli col S.
Padre. Viene mgr. Cicognani dalla Concistoriale, gli spiego la situazione
di don Biagio ed egli mi consiglia a parlare coll'Em.za De Lay. Alle
18.30 sono dall'Em.za, il quale mi dice di scrivere a Cipriani, si trovi
martedì alla Concistoriale, viene l'Em.za Gasparri e tutto è
sospeso. Alle 22 parto da Roma, stanco morto, ma con tante parole ho
fatto un'opera buonissima".
La situazione di don Cipriani si
normalizzò dopo pochi giorni; fu assunto presso la Congregazione
Concistoriale e, dopo aver promesso che avrebbe rispolverato il suo
inglese, gli fu affidato un ufficio che si occupava dei rapporti diplomatici
con gli Stati Uniti.
La situazione a Fermo rimaneva
tesa. Con la partenza di don Biagio il Ricreatorio subì un duro
colpo; molte famiglie non mandarono più i loro figli per paura,
molte altre li iscrissero alle organizzazioni fasciste. Il calo di frequenze
iniziò a farsi sentire, oltre che per i problemi politici, anche
per la mancanza di una personalità che fosse in grado di radunare
i giovani. Il vescovo non trovò un assistente all'altezza del
compito, e affidò la carica di direttore, nei quindici anni successivi,
a quattro preti: don Luigi Petetti, don Emilio Del Bianco, don Giuseppe
Roscioli, don Vincenzo Vagnoni.
Don Mario Scoponi continuò
la sua opera come primo successore, ma le iniziative subirono un arresto
così brusco che le attività si limitarono alla manutenzione
degli stabili. Don Cipriani scriveva spesso da Roma per tenere aggiornato
il vescovo sull'evolversi dei fatti. In una lettera del 13 aprile 1926
diceva:
"Eccellenza Reverendissima, secondo
le istruzioni ricevute da V. E., questa mattina alle 11 sono andato
da S. Em. il card. De Lay. In anticamera mi ha visto mons. Cicognani
il quale mi ha trattato con molta deferenza e mi ha fatto
un piccolo
esame linguistico. Sua Eminenza mi ha accolto con un benevolo sorriso
e mi ha detto che ha intenzione di servirsi di me per un ufficio in
Concistoriale. Però, siccome deve parlare col Santo Padre e non
prima di venerdì prossimo, è necessario che torni da lui
sabato venturo".
In un'altra lettera del 2 novembre
dello stesso anno don Biagio ricorda con malinconia i momenti felici
del Ricreatorio, ed il suo legame con Fermo e con i suoi giovani:
"Eccellenza reverendissima, compio
il filiale dovere di farle gli auguri onomastici. Nel formularli verrebbero
giù, più o meno, le solite espressioni e mi parrebbe di
fare un compito di prima ginnasiale. Perciò vi rinuncio: V. Ecc.,
che ha l'occhio sicuro, vede nel mio viso, quest'anno lontano, la commozione
dell'affetto e della gratitudine sincera. Nel periodo non breve il cui
ho avuto la fortuna di esserle vicino, mi è stato possibile comprendere
tutta la bontà del suo cuore paterno. Mi continui la sua benevolenza
che è un conforto grande per me. Forse non mi crederà,
Eccellenza, ma quando passa qualche ora triste, ( e chi non conosce
le ore tristi) il ricordo di mio fratello e di lei mio buon padre mi
commuove confortandomi. Questo povero don Biagio in fondo è stato
salvato da lei, giovanissimo, dal suo modernismo sia pure ingenuo ed
oggi, nell'età virile, dal suo
rivoluzionarismo
.
Eccellenza come le debbo esser grato! Negli avvenimenti tristi veggo
ognor più la bontà di Dio. Non ne sono degno! La mia vita
è ormai regolarizzata: Ufficio, casa, Gioventù Cattolica.
Non posso dire di essere nel mio mondo, ma non sento un vero e proprio
disagio. Quest'anno mi darò all'insegnamento religioso in qualche
Istituto o Collegio; sono in progetto quattro o cinque ore settimanali.
La vita di ministero è però troppo scarsa e ne sento vivissimo
il bisogno. Qui non si può toccar nulla senza urtare suscettibilità:
tutto è sostenuto compassato, ogni passaggio di mosca è
questione internazionale
, e chi ci si accosta?
ed ero abituato
alle questioni inter puerili!!
Cerco di studiare un po', ma gli
stimoli mancano. Da Fermo i giovani mi danno buone notizie; è
una fortuna che sia rimasto Marcello Seta. Speriamo che si salvi qualche
cosa: temo che sia prossima una battaglia a fondo contro le associazioni
cattoliche. Il Signore difenderà le cose che son sue".
La crisi del San Carlo lo rese
ancor più vulnerabile agli interessamenti delle organizzazioni
fasciste. Il fascismo aveva creato movimenti giovanili in contrapposizione
a quelli cattolici, ma non aveva gli spazi per radunare i giovani. Cominciò
allora ad interessarsi al Ricreatorio per la sua posizione, vicina al
centro, ma sufficientemente lontana dall'abitato, e per gli ampi spazi
e giardini che aveva a disposizione. Il 7 novembre 1926 mons. Castelli
scriveva: "Viene P. Bonaventura e mi dice che persona altolocata gli
ha detto di avvertirmi che, richiestone, non abbia a rifiutarmi di cedere
il Ricreatorio ai fascisti, perché ne verrebbero guai assai seri.
Da tutto il complesso deduco che questa persona sia l'istesso sottoprefetto.
Rispondo che ci avrei pensato. Mando a chiamare mgr. Vicario e don Nazzareno
e mi dicono che non si tratterebbe di imposizione, ma di trovare un
modus vivendi". Il padre Bonaventura era un religioso vicino al fascismo
di cui spesso il regime si serviva per mantenere i contatti ufficiosi
con il vescovo Castelli. Dunque "le batterie puntate contro di noi"
non avevano smesso di creare difficoltà a mons. Castelli, ed
anche la strategia di lusingare il regime in pubblico, continuando ad
agire come prima in privato, non aveva dato i frutti sperati. Il fascismo
continuò ad ostacolare in tutti i modi il Ricreatorio, soprattutto
quando apparve chiaro che mons. Castelli non l'avrebbe mai venduto.
Mons. Castelli si trovò
a fronteggiare le forti pressioni dei fascisti locali, che insistevano
nel chiedere l'allontanamento dei preti che animavano il mondo giovanile.
Inoltre, altre preoccupazioni giunsero dalle prefetture, che avevano
una funzione di controllo ed agivano direttamente sul ministero dell'interno.
Il prefetto di Ascoli Piceno Wenzel, il 23 novembre 1922, quattro anni
prima della partenza forzata di don Cipriani, scrisse una lunga relazione
indirizzata personalmente al Ministro dell'Interno, descrivendogli la
preoccupante situazione riguardo l'atteggiamento antifascista di alcuni
preti, e l'ostacolo rappresentato dall'arcivescovo Castelli che si ostinava
a difenderli. La relazione mostra che gli episodi di violenza del '26
avevano una preistoria molto chiara, e che esisteva una particolare
sollecitudine del regime nell'individuare e schedare tutti coloro che
sarebbero potuti risultare di ostacolo al nuovo stato. I fratelli Cipriani,
presentati come i più ostici e pericolosi collaboratori del vescovo
e individui da sorvegliare, erano al centro dell'interesse del fascismo
molto prima che gli scontri divenissero irreparabili. Dalle prefetture
emergeva un immagine del clero poco docile alla collaborazione con il
regime, spesso estraneo alle celebrazioni patriottiche, quasi disinteressato
della situazione politica italiana, nostalgico del passato e troppo
schierato a favore del Partito Popolare. Nella relazione si criticava
aspramente la scarsa collaborazione che da molta parte del clero arrivava
al fascismo. Tra i preti maggiormente attaccati vi erano don Giuseppe
Cesetti di Amandola, definito sovversivo ed amico dei socialisti e dei
comunisti, don Raffaele Moscoloni, parroco a Sant'Elpidio a Mare, don
Caferri e don Scalabrone di Montedinove, ed infine i fratelli Cipriani
di Fermo. Il nuovo prefetto di Ascoli, Edoardo Fassini Camossi, propose
alla magistratura lo svolgimento di una formale inchiesta giudiziaria
a carico di mons. Castelli, perché questi si era rifiutato di
partecipare ad alcune delle iniziative patriottiche in Amandola, dopo
che il parroco don Giuseppe Cesetti era stato costretto a lasciare la
parrocchia. Il prefetto Camossi, nell'attaccare le posizioni del vescovo,
cercò di dimostrare come fossero isolate nel panorama clericale
e laicale della diocesi, e quanto fossero personali le idee del vescovo,
per niente sostenute dai suoi collaboratori. In realtà accadde
esattamente il contrario: la resistenza del vescovo fu possibile grazie
al sostegno che ebbe da ampi strati della popolazione, alla collaborazione
di molti sacerdoti, al contributo politico di molti protagonisti del
Movimento Cattolico locale.
L'inchiesta fu effettivamente inoltrata
ed arrivò fino al Ministro di Grazia e Giustizia Oviglio, ma
si concluse senza conseguenze per mons. Castelli, perché si decise
che sarebbe stato più opportuno procedere attraverso gli organi
ecclesiastici competenti. Camossi, però, non si accontentò
di far richiamare mons. Castelli dalle gerarchie vaticane, ma convocò
i vescovi del Piceno per avere spiegazioni sulla presunta attività
di riorganizzazione del Partito Popolare. Nella relazione sottolineava:
"E' mio dovere far notare che il partito popolare, i vescovi ed i preti,
non hanno smobilitato, anzi la loro azione è diventata subdola
quanto mai e posso a ragione definirla menzognera. (
) Fermo e
Montalto sono le roccaforti del partito popolare della provincia e sono
saldamente tenute dai due vescovi, superlativamente intransigenti, che
in ogni comune hanno nei preti innumerevoli tentacoli, veri agenti provocatori,
intrufolati nelle pubbliche amministrazioni e capaci di poter assai
nuocere".
Le tensioni sfociarono negli episodi
del '26 ed ebbero una ripercussione molto lunga. Oltre un anno dopo
la partenza di don Cipriani, il vescovo ricevette una lettera anonima
che lo esortava a prendere analoghi provvedimenti per il fratello di
don Biagio, Filippo Maria Cipriani. Il motivo determinante era l'inconciliabilità
che esisteva tra i movimenti giovanili fascisti e quelli cattolici e,
per la prima volta, si ammetteva chiaramente che la ragione del contrasto
era la reciproca concorrenza nella formazione delle coscienze:
"Gentilissimo Monsignore, chi scrive
a voi non si nasconde per viltà, ma solo per prudenza. Però
è bene che voi conosciate ciò che avviene nella nostra
città. E vi ripeto così le parole di chi è addentro
alle schiere fasciste: oggi il fascismo è il regime italiano
e chi non lo accetta deve andare ai confini. Qui a Fermo si è
visto che le difficoltà di adesione, si sono trovate nelle società
cattoliche e specialmente in quelle dirette dai Cipriani. Vuol dire
che, se uno è partito, l'altro dovrà avere più
giudizio!?
!
?!. Loro parlano a nome della bandiera papale,
ma verrebbero creduti se avessero fatto solo i preti e non anche i politicanti.
Se oggi essi non appariscono apertamente in politica è perché
vige il fascismo, se continuassero a sventolare la bandiera popolare,
continuerebbero come prima ad occuparsi di politica. Questa è
l'opinione di molti. Vi farei sentire come parla la presidentessa del
Fascio su tutte quelle che hanno per presidente don Filippo Cipriani.
La stessa cosa si dice di coloro nel Ricreatorio hanno avuto per presidente
don Biagino. Don Biagino con la cosa dei regolamenti non ci volle i
fascisti nel Ricreatorio. Ma i regolamenti li può mettere avanti
chi è stato sempre regolare, cioè chi non si è
mai impicciato di politica. (
) Perché non si può
stare in due società, una religiosa e una fascista? Come va che
fra molti sacerdoti, cardinali, vescovi sono fascisti non come autorità
religiose ma come cittadini? E di questo esistono prove. Qui in cinque
anni che è sorto il fascio, le ostilità si sono avute
sempre da quelle persone imbevute di popolarismo, da quella parte ciprianesca
e compagnia".
Altre forti ostilità si
verificarono nella notte tra il 29 e 30 gennaio 1927: alcuni ignoti
scassinarono l'ingresso del Ricreatorio rubando parecchio materiale
sportivo (i palloni, le palle di avorio del biliardo), trofei e riconoscimenti
conquistati dalle varie sezioni della Victoria nei vari ambiti di attività:
"Sorta l'istituzione del Ricreatorio fra le difficoltà, le diffidenze,
le lotte qualche volta anche cruente -ricorda don Mario Scoponi- sostenuta
solo dall'aiuto del Cielo e dalla tenacia di chi la crebbe, per vivere
non poteva che lottare, lottare contro tutte le armi palesi ed occulte
degli avversari: sarcasmo, denigrazione, violenza, devastazione. Quante
notti insonni, quante lacrime silenziose! Quanta amarezza per causa
di chi, uscito beneficato, vi ritornava nemico! La S. Sede con l'invito
di assumere un incarico di fiducia presso la S. Congregazione Concistoriale
provvidenzialmente impedì che l'incomprensione diventasse follia".
4.4.
Un tentativo di riorganizzazione e la definitiva chiusura
I rapporti con le istituzioni ufficiali
dello stato si fecero progressivamente più aspri; agli scontri
di vertice, fecero seguito atti di teppismo e continue scaramucce. Era
necessaria una revisione della gestione del Ricreatorio, che tenesse
conto del clima fermano e rappresentasse l'ultimo efficace tentativo
di autonomia e difesa della pastorale giovanile. Mons. Castelli ritenne
opportuno chiedere un parere ai diretti responsabili della organizzazione.
Un primo documento fu presentato all'attenzione del vescovo: si trattava
di un programma molto articolato elaborato da un anonimo prete che dimostrava
una discreta conoscenza del San Carlo.
La relazione era sostanzialmente
critica nei confronti del Ricreatorio, come se l'autore percepisse quella
distanza che cominciava a crearsi tra il San Carlo e la città
di Fermo. Il fascismo aveva indebolito l'immagine della formazione cattolica
e si cominciavano a sentire i primi effetti della contropropaganda.
Dopo molti anni i circoli cattolici non erano più gli unici attrezzati
all'accoglienza dei giovani e, per quanto il fascismo non avesse strutture
paragonabili a quelle ecclesiastiche, cresceva la concorrenza educativa.
Diverse testimonianze orali ricordano che molti genitori arrivarono
a proibire ai loro figli la frequenza del San Carlo, per paura di molestie
e ritorsioni, anche se continuavano ad apprezzare e condividere l'impostazione
pedagogica che si intendeva impartire.
Di fronte a questa situazione,
sempre più delicata, nell'incertezza di uscirne in modo indolore,
si cercò di apportare alcune modifiche al Ricreatorio, nel complesso
marginali, intervenendo sul San Carlo come su un meccanismo incrinato.
Alle base delle proposte fatte vi era l'idea che il problema del consenso
giovanile fosse di natura tecnica e che le istituzioni oratoriali si
dovessero solo riorganizzare ed aggiornare per tornare agli splendori
di un tempo. Era evidente la sotterranea convinzione che i problemi
politici potessero essere superati risolvendo quelli organizzativi.
I principali motivi di critica erano il rapporto troppo stretto tra
il Circolo Silvio Pellico e la Gioventù Cattolica, la mancata
strutturazione di quest'ultima, lo stato materiale in cui versavano
gli stabili, l'istruzione religiosa non più incisiva come un
tempo, il ruolo dell'assistente ecclesiastico, le forme ricreative da
rinnovare e migliorare:
"Perché possa essere maggiormente
preciso nell'esposizione richiamo la distinzione ben nota all'Ecc. V.
tra Ricreatorio e Circolo di Gioventù Cattolica. Diversi nella
loro origine, lo sono anche nel fine. Il primo ripete la sua origine
a S. Filippo Neri, S. Carlo, il Beato Giovanni Bosco, ed ha per iscopo
principale e diretto la formazione religiosa della gioventù;
mira solo indirettamente, come conseguenza, alla formazione sociale
del giovane, quale cittadino, cattolico militante, cioè cooperatore
dell'apostolato gerarchico della Chiesa. La Gioventù Cattolica,
invece, fondata dal conte Mario Fani e dal dott. Giovanni Acquaderni
nel 29 luglio del 1867, ha per mira proprio quest'ultima qualifica,
cioè di un giovane religioso, divenuto tale attraverso le file
delle diverse associazioni parrocchiali, ovvero attraverso le file stesse
del circolo della sezione Aspiranti, ne vuol fare un giovane cattolico
militante cosciente, in ogni campo di azione, portando in ogni sfera
lo spirito vivificante di Cristo".
Mons. Castelli sottopose la relazione
pervenutagli al giudizio dello stesso don Cipriani, per avere un confronto
autorevole che gli suggerisse con sincerità quelli che riteneva
gli interventi più immediati da effettuare al Ricreatorio. Don
Biagio rispose analizzando punto per punto le proposte dell'anonimo
sacerdote, e ripropose quasi integralmente il modello al quale si era
sempre ispirato. Don Cipriani, forse per la carica che esercitava a
Roma, mostrò una conoscenza della realtà ecclesiale molto
più ampia per quello che riguardava i rapporti con il regime.
Egli diffidava di una eccessiva compenetrazione tra Ricreatorio e AC,
probabilmente perché conservava un certo disincanto sulle prospettive
delle associazioni cattoliche, e avrebbe voluto mantenere divisi i due
ambiti per evitare che l'uno coinvolgesse l'altro:
"Ecc. Rev.ma, la sua bontà
mi invita ad esprimere il mio parere sul promemoria gentilmente inviatomi,
che riguarda l'ordinamento del Ricreatorio San Carlo. Ella mi chiama
perciò a ricordi e passioni così vive ancora nell'anima
mia; grazie, Eccellenza, grazie con tutto il cuore. Chi ha compilato
il promemoria mi sembra abbia avuto gli occhi aperti e abbia ben capito
le necessità dell'istituzione. Le mie osservazioni in proposito
sono le seguenti: mi sembra verissimo quanto si espone nella prima pagina
circa la distinzione tra Ricreatorio od Oratorio e Circolo di Gioventù
Cattolica. Non vedo però che, dopo le esatte espressioni in proposito,
si sia scesi alle relative applicazioni. Nel riordinamento, cioè,
del Ricreatorio, proposto nelle pagine seguenti del promemoria, non
si fa parola e molto meno si sistema l'organizzazione secondo i criteri
affermati. Per conto mio non vedo opportuno che tutti i giovani, i quali
frequentano il Ricreatorio, vi siano iscritti esclusivamente come soci
della Gioventù Cattolica ossia del Circolo Silvio Pellico. (
)
Temo anzi che l'attruppare sotto la bandiera di così alta missione
centinaia fra ragazzi e giovanotti possa essere una difficoltà
non lieve per ottenere poi un'accolta di giovani cattolici militanti
così come vuole il S. Padre nella società della Gioventù
Cattolica Italiana".
La natura politica dei dissensi
fu evidente alcuni mesi dopo, quando la situazione trovò un epilogo
negli episodi del '31. La partenza di don Cipriani, pur essendo stato
un duro colpo per l'intera diocesi, non aveva ancora messo in ginocchio
il Ricreatorio. Don Luigi Petetti aveva continuato il suo lavoro, come
avveniva in tutte le altre sedi locali. Ma nel maggio del 1931 il Ricreatorio
fu ufficialmente chiuso, per l'applicazione del decreto sui circoli
cattolici che gestivano un'organizzazione concorrenziale ai movimenti
giovanili fascisti. Oltre alla chiusura dei locali, fu decretato il
sequestro dei mobili e dei documenti relativi alle iscrizioni al fine
di schedare i frequentatori del San Carlo.
Don Mario Scoponi ricorda il giorno
della chiusura con amaro sarcasmo: "Alle cinque del mattino, fui prelevato
da un questurino, trattenuto tutta la mattina nel Commissariato, e poi
condotto ad assistere al sequestro dei mobili del Circolo di AC, di
tutte le bandiere, anche quelle sportive, che io stesso avevo fatto,
di tutti i registri, delle fotografie, delle chiavi del Ricreatorio
alla cui porta misero anche un grosso lucchetto, ed i sigilli. Fin verso
le 14 durò quello strazio; poi mi rilasciarono. L'eroica impresa
era terminata".
Decretando la chiusura dei circoli
cattolici, e del Ricreatorio San Carlo, il fascismo mostrava di temere
il valore dell'educazione giovanile cattolica e, nello stesso tempo,
di non tollerarla. La chiusura dei circoli, tra l'altro, non fu una
mossa politica lungimirante, perché creò tensioni, oltre
che con le associazioni giovanili cattoliche, anche con gli ambienti
clericofascisti, facendo naufragare quel riconoscimento ufficiale del
regime auspicato da alcuni settori della chiesa. Inoltre, la base elettorale
fascista non era così radicale nei confronti delle istituzioni
cattoliche, perché spesso aveva interesse ad usufruire della
formazione religiosa e di quella civile, per cui molti genitori mandavano
indifferentemente i loro figli all'Opera Nazionale Balilla ed agli oratori.
Il fascismo, pretendendo il monopolio della formazione giovanile, superò
agevolmente la concorrenza cattolica, ma mostrò di non conoscere
fino in fondo la complessità delle esigenze che provenivano dalla
base.
Gli oratori si ricostituirono in
poco tempo in tutta Italia; questo processo avvenne tanto più
rapidamente e con incisività quanto più repressiva era
stata l'influenza fascista. Laddove erano stati maggiormente penalizzati,
gli oratori si riorganizzarono con molto più entusiasmo che altrove,
divenendo, in alcuni casi, veri e propri centri di formazione culturale
e professionale. Molti si trasformarono in scuole, case editrici, agenzie
di viaggi, compagnie assicurative, poiché le attività
che erano collaterali ebbero un tale sviluppo al punto da diventare
fondamentali ed esclusive.
Il San Carlo ebbe un'analoga esperienza,
trovando il momento di massima espressione negli anni appena seguenti
la seconda guerra mondiale, proprio quando i rigori del regime sembravano
aver fiaccato definitivamente ogni possibilità di riapertura.
Tutte le iniziative sportive, culturali, musicali e religiose che avevano
avuto origine prima della guerra, continuarono moltiplicate anche dopo,
grazie agli stimoli di don Giovanni Marozzi, direttore del San Carlo
dal 1941 al 1949. L'oratorio acquistò sempre più credito
da parte della popolazione fermana, e riuscì ad aggiornare i
propri metodi pastorali tornando ad essere l'istituzione più
innovativa nel fermano.
In molte diocesi d'Italia, soprattutto
in Piemonte e Lombardia, a partire dalla seconda metà del XIX
secolo fino ai nostri giorni, gli oratori hanno coordinato quasi interamente
la pastorale giovanile. La longevità di questa istituzione è
dovuta alle grandi personalità che l'hanno progettata, strutturata
e diretta, e alle continue riforme di cui si è fatta promotrice.
Molte esigenze pastorali avvertite nelle parrocchie trovarono tentativi
di risposta negli oratori.
L'esempio fermano è indicativo
della risposta offerta dalla chiesa locale alle esigenze delle nuove
generazioni. Il Ricreatorio è stato spesso il banco di prova
che ha sperimentato con successo un nuovo modo di presentare la validità
del rapporto diretto con le persone, con i giovani, con il mondo del
lavoro e dello svago, che ha visto realizzati progetti improponibili
nelle parrocchie, perché troppo diverso era il contesto pastorale
ordinario. Il motivo di interesse maggiore è stato il fatto che
tutto ciò non avveniva più in modo clandestino, affidando
le riforme liturgiche e catechetiche al coraggio di pochi parroci, ma
avveniva con l'appoggio e la sincera promozione degli arcivescovi fermani,
i primi interessati al buon andamento del San Carlo.
I conflitti con il regime fascista
non incrinarono la validità di una proposta educativa e di un
impegno ecclesiale, come le vicende del secondo dopoguerra potrebbero
ampiamente documentare. Anche un oratorio di provincia, per così
dire, era stato coinvolto da una tempesta collettiva che non era riuscita
a minarne le fondamenta. Vicende non dissimili (e anche più drammatiche)
furono vissute in ambienti cattolici tutt'altro che ossequienti al fascismo.
L'esperienza fermana, tra conflitti e generosi progetti educativi, rimane
comunque significativa nella storia di una chiesa locale impegnata a
portare la luce del Vangelo nelle tensioni del proprio tempo.
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